Go review that album! Primo turno

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    "Load" dei Metallica

    Vado con la prima recensione.

    Load, uscito nel 1996, è l’album della famigerata “svolta” dei Metallica, che tagliano i capelli e rallentano le canzoni, venendo sommersi dalle critiche dei fan della prima ora e dall’odio dei colleghi/avversari che li accusano di essersi venduti al dio denaro e ad Mtv (accusa non del tutto infondata a dir la verità). L’intenzione, che immagino sia dovuta soprattutto al cantante James Hetfield è quella di commistionare l’heavy metal con il blues, il country e l’hard rock, tutti generi musicali che fanno parte del background musicale di “Papa Het”.
    La opener “Ain’t My Bitch” è, come consuetudine per i Four Horsemen, molto energetica. Una canzone che potrebbe sembrare sulla falsariga del precedente Black Album, ma già dal ritornello e dall’assolo di Kirk Hammett si avvertono i primi elementi di novità (o di blasfemia, direbbe un metallaro): accordi aperti invece del solito riffone, e addirittura una slide guitar al posto del consueto assolo alla velocità della luce.
    In “2x4” assomigliano quasi agli ZZ Top, riff bluesy e ritornello catchy. Segue altro brano heavy blues, “The House Jack Built”.
    “Until it Sleeps” è la consueta ballad che occupa il quarto posto della tracklist di ogni album dei Metallica da Ride the Lightning in poi.
    Terzetto “sperimentale” (ovviamente per quanto riguarda i canoni dei Metallica, perché siamo all’ABC dell’hard rock) composto da “King Nothing”, “Hero of the Day”, e “Bleeding Me”, dei quali quest’ultima è forse la più riuscita, gran bel pezzo, quasi progressive, con un gran tiro e un’interpretazione molto sentita di Hetfield.
    Da “The Cure” in avanti si capisce chiaramente che questo album sarebbe dovuto durare almeno 4-5 canzoni in meno. Fatta eccezione forse per “Mama Said”, country ballad in cui Hetfield scava dentro se stesso, e la conclusiva “The Outlaw Torn”, che prosegue sul filone della sperimentazione-jam, nessun brano giustifica la sua presenza su questo album, ma anche su un qualsiasi altro album.
    Questo album dà l’impressione di essere un qualcosa a metà fra la voglia di Hetfield di sperimentare con le sue radici musicali da “redneck”e un’operazione di marketing paracula. La parte davvero peggiore di questo album è infatti tutto quello che gli sta intorno: dalla produzione eccessivamente patinata di Bob Rock (probabilmente la vera rovina dei Metallica negli anni ’90/’00), a quello che sembra il tentativo di rinnovare un “brand” (taglio di capelli, foto coatte sul retro di copertina, artwork pseudointellettuale, cambio del logo). Il risultato è alla fine quasi disastroso, poiché Load è un tentativo di non perdere il mercato dei fan del metal mentre si tenta di sfondare nel mercato degli anni ’90, col risultato di scontentare gli uni e gli altri (nel mondo impazzano il grunge e l’alternative e tu te ne esci con un disco di southern rock rivisitato in chiave heavy, caspita che genio). Musicalmente parlando il disco risulta eccessivamente prolisso, i tentativi di fare una versione “pesante” del southern rock sono appunto troppo… pesanti, probabilmente andavano fatte scelte completamente diverse a livello di sound e brani più brevi. Forse se avessero "osato" di più, abbandonando totalmente il classico muro sonoro del Black Album, e non cercando per forza di rendere il tutto “patinato” (sia a livello compositivo che di produzione) avremmo oggi un album decisamente più interessante. Comunque ci sono alcuni pezzi decisamente discreti, come le due ballad e i pezzi più “jammati” (“Bleeding Me” e “The Outlaw Torn”).
    Il voto finale è un 5,5, media fra il voto alle intenzioni (un 6+) e il voto alla paraculaggine (4,5).

    Edited by Shagrath82 - 23/10/2013, 19:59
     
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    Madre, donna, lesbica. What else?

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    Culla Bianconera

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    "War" degli U2

    Qualche piccola info e premessa: disco del 1983, fu il terzo album della band irlandese, quello della loro consacrazione. Consacrazione a livello di vendite, ovviamente, ma anche di band politica.
    Non ho particolari pregiudizi nell'ascoltare questa band, anche se li ho sempre ritenuti abbastanza "paraculi", sopratutto dopo la svolta terzmondista risalente a circa 12 anni fa (però si guardano bene dal vendere biglietti a prezzi più bassi o di condividere materiale sul web: terzomondisti sì, cretini no :hihi:)
    Cmq, tornando a noi, dopo ripetuti ascolti, mi sono chiesta come abbia fatto a vendere. Ovvio, c'è il singolo forte, la magnifica Sunday Bloody Sunday, posta proprio in apertura dell'album.
    Il resto mi è scivolato addosso senza lasciarmi traccia. Seconds ha un discreto ritornello, dove si sente abbastanza bene il basso, ma mi sembra una canzoncina così, come ne hanno fatte tante. Diciamo che si fa ricordare perché ha una strofa cantata da The Edge.
    Segue la carina New Year's Day, primo vero successo del gruppo.
    Drowning Man è una sorta di ballata, che trovo ababstanza fastidiosa con quei coretti e chitarra ritmica abbastanza monocorde.
    Refugees passa senza lasciarmi nulla, mentre Two hearths beat as One è carina, molto anni ottanta, sicuramente, ma gradevole.
    Non sto nemmeno a citare le altre canzoni. Tranne la breve e conclusiva 40. Bella, sognante e romantica senza essere zuccherosa o melensa.
    In conclusione: sono rimasta spiazzata. Poche volte ho ascoltato un disco invecchiato così male. Invecchiato nelle registrazioni (ma non ho ascoltato la versione rimasterizzata), che appiattiscono il suono, ma sopratutto invecchiato nela composizione delle canzoni. Sicuramente meglio The Joshua Tree.
    Voto: 5 (sarebbe più basso, ma se azzecchi una canzone come Sunday Bloody sunday ti perdono molte cose).
     
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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    CITAZIONE (Creeping Death @ 10/9/2013, 11:54) 
    Vado con la prima recensione.

    Load, uscito nel 1996, è l’album della famigerata “svolta” dei Metallica, che tagliano i capelli e rallentano le canzoni, venendo sommersi dalle critiche dei fan della prima ora e dall’odio dei colleghi/avversari che li accusano di essersi venduti al dio denaro e ad Mtv (accusa non del tutto infondata a dir la verità). L’intenzione, che immagino sia dovuta soprattutto al cantante James Hetfield è quella di commistionare l’heavy metal con il blues, il country e l’hard rock, tutti generi musicali che fanno parte del background musicale di “Papa Het”.
    La opener “Ain’t My Bitch” è, come consuetudine per i Four Horsemen, molto energetica. Una canzone che potrebbe sembrare sulla falsariga del precedente Black Album, ma già dal ritornello e dall’assolo di Kirk Hammett si avvertono i primi elementi di novità (o di blasfemia, direbbe un metallaro): accordi aperti invece del solito riffone, e addirittura una slide guitar al posto del consueto assolo alla velocità della luce.
    In “2x4” assomigliano quasi agli ZZ Top, riff bluesy e ritornello catchy. Segue altro brano heavy blues, “The House Jack Built”.
    “Until it Sleeps” è la consueta ballad che occupa il quarto posto della tracklist di ogni album dei Metallica da Ride the Lightning in poi.
    Terzetto “sperimentale” (ovviamente per quanto riguarda i canoni dei Metallica, perché siamo all’ABC dell’hard rock) composto da “King Nothing”, “Hero of the Day”, e “Bleeding Me”, dei quali quest’ultima è forse la più riuscita, gran bel pezzo, quasi progressive, con un gran tiro e un’interpretazione molto sentita di Hetfield.
    Da “The Cure” in avanti si capisce chiaramente che questo album sarebbe dovuto durare almeno 4-5 canzoni in meno. Fatta eccezione forse per “Mama Said”, country ballad in cui Hetfield scava dentro se stesso, e la conclusiva “The Outlaw Torn”, che prosegue sul filone della sperimentazione-jam, nessun brano giustifica la sua presenza su questo album, ma anche su un qualsiasi altro album.
    Questo album dà l’impressione di essere un qualcosa a metà fra la voglia di Hetfield di sperimentare con le sue radici musicali da “redneck”e un’operazione di marketing paracula. La parte davvero peggiore di questo album è infatti tutto quello che gli sta intorno: dalla produzione eccessivamente patinata di Bob Rock (probabilmente la vera rovina dei Metallica negli anni ’90/’00), a quello che sembra il tentativo di rinnovare un “brand” (taglio di capelli, foto coatte sul retro di copertina, artwork pseudointellettuale, cambio del logo). Il risultato è alla fine quasi disastroso, poiché Load è un tentativo di non perdere il mercato dei fan del metal mentre si tenta di sfondare nel mercato degli anni ’90, col risultato di scontentare gli uni e gli altri (nel mondo impazzano il grunge e l’alternative e tu te ne esci con un disco di southern rock rivisitato in chiave heavy, caspita che genio). Musicalmente parlando il disco risulta eccessivamente prolisso, i tentativi di fare una versione “pesante” del southern rock sono appunto troppo… pesanti, probabilmente andavano fatte scelte completamente diverse a livello di sound e brani più brevi. Forse se avessero "osato" di più, abbandonando totalmente il classico muro sonoro del Black Album, e non cercando per forza di rendere il tutto “patinato” (sia a livello compositivo che di produzione) avremmo oggi un album decisamente più interessante. Comunque ci sono alcuni pezzi decisamente discreti, come le due ballad e i pezzi più “jammati” (“Bleeding Me” e “The Outlaw Torn”).
    Il voto finale è un 5,5, media fra il voto alle intenzioni (un 6+) e il voto alla paraculaggine (4,5).

    per me la svolta pessima l'avevano già fatta nel 1991 col Black Album.
    Trovo molto più onesto questo disco. Poi, ovvio, Re-Load è la merda più assurda, per non parlare di S&M
     
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    CITAZIONE (Shagrath82 @ 10/9/2013, 20:21) 
    per me la svolta pessima l'avevano già fatta nel 1991 col Black Album.
    Trovo molto più onesto questo disco. Poi, ovvio, Re-Load è la merda più assurda, per non parlare di S&M

    In parte concordo con te, e infatti fu molto più "sensata" quella svolta, che ebbe un successo strepitoso e un influenza importante anche sulla scena metal (hai voglia a riempirsi la bocca col trve medol, ma se non sbaglio praticamente TUTTI i grandi del metal cambiarono in un certo senso stile dopo il Black Album, dai Manowar ai Megadeth, dai Maiden agli Slayer). Però il Black Album è innegabilmente ben suonato e ben composto, mentre Load è un mezzo pastrocchio. Se fosse stato onesto al 100% probabilmente lo avrei preferito al Black, ma non lo è.
     
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  5. Èttore
     
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    Allora, vediamo un po'.

    Ho un po' di imbarazzo a scrivere di Them Crooked Vultures, perché non ho mai ascoltato un disco per intero di Josh Homme, né nei qotsa né nei Kyuss. Conosco meglio Dave Grohl e John Paul Jones, ma ho la sensazione che il marchio più significativo l'abbia dato il chitarrista.
    Faccio un po' fatica, a dire il vero, a capire dove il disco voglia andare a parare, e la sensazione generale è che la principale ragione di questa uscita sia che i tre avevano voglia di suonare assieme, il materiale era superfluo.
    I pezzi che si salvano galleggiano su poche trovate, qualche simpatica sovraincisione di chitarra, qualche riff davvero riuscito (ad esempio Bandoliers, la mia preferita del lotto, che però si perde verso metà, scivolando nell'indefinitezza del resto dei brani).
    I tentativi ci sono anche, spesso si cercano soluzioni buttandosi sulle variazioni della sezione ritmica, esempio su tutte Elephants, che però ogni volta che abbandona il simpatico tempo in levare, vuoi accelerando, vuoi aprendosi melodicamente, perde tutto l'interesse che poteva avere.
    Gunman, invece, è un'idea parecchio noiosa: no, mettere un beat sintetico sotto al vostro sound non migliora la situazione, non capisco come abbiate potuto pensarlo. :hihi:
    Sound che alle mie orecchie risulta sempre molto vuoto, troppo secco, e alla lunga richiede molta concentrazione perché nelle orecchie non resti un pastone tutto uguale di riff e vocette acute.
    Credo che i tre volessero reggersi dimostrando quanto si divertono a suonare insieme, e che abbiano cercato dunque un'attitudine tra il serio e il faceto, cercando di disseminare trovate curiose e un po' "weird" in giro per il disco. Troppo poche, però, troppo poco "weird" e troppo poco buone. L'esempio più lampante è Reptils, che appare un fallimentare tentativo di creare un'atmosfera un po' obliqua e curiosa, zeppa di sovraincisioni di chitarra che però riescono solo a togliersi forza a vicenda.
    I colpi a sorpresa non sorprendono più di tanto, e restano solo colpi a sorpresa, venendo sempre abbandonati nel giro di pochi secondi: vedasi il filtro all'inizio di Interlude With Ludes, o anche il pianoforte all'inizio di Spinning in Daffodils.
    In complesso il disco non merita voti troppo bassi solo perché i primi quattro o cinque pezzi sono portatori di un po' di sano groove. Non basta, però, a salvare il lavoro.

    4,5

    Cheers,
    Ettore
     
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  6. Dude
     
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    Gallon Drunk - You, the Night... and the Music (1992)

    Quando i londinesi Gallon Drunk arrivano al primo LP, You, the Night... and the Music (il titolo mi pare un'evidente citazione del brano americano You and the Night and the Music, noto come standard di jazz), hanno già alle spalle una nutrita serie di singoli. L'album prosegue sullo stesso solco tracciato dalle prime uscite discografiche, mettendo in mostra - grazie anche ad una produzione che definirei "ottimamente esasperata" - una palette sonora tutta sbilanciata sul registro basso: scelta non dissimile da quella dei coevi Morphine, i quali si distinguono però per complessità e felicità d'ispirazione.
    Il grosso limite di questo disco d'esordio è infatti la inesorabile piattezza armonica: la maggior parte dei brani è giocata su riff di basso che si ripetono ciclicamente, riducendo tutti i motivi d'interesse al groove (peraltro eccellente) della sezione ritmica e al canto un po' monocorde di Johnston. Ragion per cui la forte apertura sul quarto grado minore nel ritornello strumentale di Just One More, sottolineata da un organo solenne, risulta essere una salutare boccata d'aria, nonché uno dei momenti più intensi dell'album. Nei brani più articolati (Two Wings Mambo il migliore) il gruppo si abbandona ad un primordiale formato di jam che non prevede assoli, bensì continue colorazioni del ritmo, subitanee esplosioni collettive, piramidi di riff; modello che alla lunga rischia di diventare sterile, nonostante l'aggiunta, infruttuosa, del pianoforte nella title-track.
    Il culmine della sequenza finale Eye of the Storm + The Tornado, carico di un pathos "maledetto" in effetti molto Cave-iano, è il suggello di un disco forse non ricchissimo di idee, ma suonato da musicisti dotati di grande incisività ritmica, sempre in grado di tenere alta la tensione: tutto sommato un onesto capitolo di quella saga, in verità molto poco inglese e molto americana, che fa capo a gruppi come Cramps, Gun Club, Birthday Party, maestri nell'unire l'aggressività iconoclastica del punk alle "radici" del blues e del rock'n'roll.

    6,5/10
     
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  7. Bottigliå
     
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    Rumours - Fleetwood Mac (1977)

    I Fleetwood Mac li conosco da una vita per il nome, ma non avevo mai ascoltato consapevolmente nulla di loro; sapendo che hanno avuto una storia lunga e travagliata ho cercato qualche premessa su questo disco e ho scoperto che è quello della nuova formula "pop" e anche il loro disco di maggior successo. Sapendo questo mi sono messo all'ascolto carico di aspettative che sono state ben mantenute, complessivamente lo trovo veramente un ottimo disco che, aldilà del singolo pezzo, ha nella coerenza e la ricchezza costante di tutte le sue tracce una qualità non indifferente. Lo ho ascoltato moltissime volte in questi giorni trovandoci raramente momenti deboli o che mi facessero venire voglia di mandare avanti il lettore.
    "Second hand news" apre il cd e fa come da dichiarazione d'intenti a livello musicale per il resto del disco, spensierata quanto basta (anche se alla lunga è quella che ha iniziato a darmi più sui nervi).
    "Dreams" credo sia l'episodio che preferisco del disco, una canzone che tra l'arrangiamento e la voce ha un equilibrio perfetto e che terrei in loop; la voce della Nicks che tra l'altro preferisco al cantato della McVie in Songbird", per quanto anch'essa brava, e nonostante un testo smielato quanto serve per piacere.
    Tra "Don't stop" e "Go your own way" ho un blocco causato dal fatto di aver sentito troppe volte queste canzoni durante le pubblicità e per quanto siano interessanti (sopratutto la seconda, con il crescendo della chitarra sul finire ed il ritornello perfetto) tendo a sentirle con una sorta di filtro acceso. (E diavolo quanto è pop "Don't stop", lo è veramente tantissimo!).
    "The chain" viene subito dopo "Dreams" nel mio indice di gradimento, segna uno stacco netto nelle atmosfere rispetto al resto del cd (forse l'unica che la segue è "Oh daddy", struggente come nessun'altra nel disco). "The chain" è rarefatta, le note della chitarra si distillano sulla base ritmica con soluzioni forse non innovative, ma molto efficaci; l'arrangiamento è forse il meno pop e più ricercato di tutto il disco, con dei momenti come la coda finale che mi hanno emozionato parecchio.
    "You make loving fun" e "I don't want to know" sono altre due canzoni ben riuscite, piacevoli da ascoltare ma che mi han lasciato meno il segno delle altre.
    "Gold dust woman" torna ad un'atmosfera onirica e sognante, con la Nicks che comincia il pezzo come in un'altro ritornello pop, per poi trasformarsi in una seduta psichedelico-spiritica.
    In conclusione, un gran bel disco, forse a tratti un po' troppo ricercatamente pop per i miei gusti, ma ogni canzone arriva esattamente dove vuole arrivare. Credo che ora mi tocchi ascoltare tusk, che forse apprezzerò ancora più da come ne ho letto.
    Ringrazio per l'assegnazione insomma, 8,5.




    CITAZIONE (Èttore @ 11/9/2013, 18:23) 
    In complesso il disco non merita voti troppo bassi solo perché i primi quattro o cinque pezzi sono portatori di un po' di sano groove. Non basta, però, a salvare il lavoro.

    4,5

    Cheers,
    Ettore

    insomma non sono solo io che dopo aver sentito tre pezzi non riesco più a proseguire, proprio quello che speravo di sentire :hihi: eri tu comunque che frequentavi perkele.it?
     
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  8. marcodonà
     
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    "Exile on Main St" dei Rolling Stones

    vi avviso, è in arrivo un post lungo, ma fra le regole del gioco non c'è l'obbligo di leggere le recensioni per intero quindi mi sento sollevato. :hihi:


    voglio prima di tutto ringraziare il feticista per avermi offerto un'occasione del genere, credo che essa abbia segnato - insieme ad un umore che mi pervade ormai da qualche mese e mi spinge in questa direzione - una tappa importante della mia consapevolezza di ascoltatore e, di riflesso, di autore. Direi che intravedo per me, dopo anni di cupe riflessioni sulla selezione e distribuzione del prodotto musicale fruibile nel presente e nel passato recente, l'inizio di una stagione di rinnovato ottimismo musicale. Al netto, la differenza è che prima annoiavo solo Dude, ora, per colpa sua e di Ettore che hanno inventato questo gioco, farò due palle sferiche a tutti quanti. Cominciamo!

    (allego la copertina perché nella valutazione del formato-album l'elemento sinestetico è sempre stato per me importantissimo, e la grafica del supporto è il più naturale e primo imbocco di tale strada)

    Rolling-Stones_exile-on-main-street

    Osservando anche di sfuggita la discografia dei Rolling Stones in ordine cronologico, il primo dato che sorprende è come Exile on Main St., pubblicato nella primavera del 1972, sia l’ultimo vero classico della loro produzione; dopo questo strabordante doppio la crisi della band sarà lunga e variopinta, fino al lento spegnimento già intrapreso negli anni ’80 e proseguito al giorno d’oggi, quando ormai gli anziani Jagger & Co. restano una macchina da spettacolo del tutto priva di pretese. Il dato può sorprendere in negativo, ma dovrebbe piuttosto sorprendere in positivo: che un gruppo rimasto costantemente sotto i riflettori fin dall’esordio (1964), elevato a leggenda vivente ed attiva, gallina dalle uova d’oro per un enorme giro d'affari, contrapposto in un’insensata operazione di marketing al meno nobile pollaio beatlesiano, che un gruppo vissuto da subito nell’aura di un vero e proprio culto, formato da persone rigonfie di danaro, donne e droga, che un gruppo simile, superato anche un rumoroso lutto, riuscisse a mantenere una qualità di proposta dignitosa, al tempo stesso cacciando fuori almeno un lp all’anno per otto anni, è, col senno di poi, un vero miracolo.

    C’era stata, invero, una fase di stallo e di crisi: il 1967, il tentativo di riciclarsi in salsa psych-pop aveva partorito litanie orrende ed iperarrangiate purtroppo mai cadute nell’oblio; il gruppo, trascinato fra lustrini, orchestrine e corelli si era scoperto goffo ed incapace di non mostrare la propria goffaggine. È più che sufficiente osservare la copertina di Their Satanic Majestes Request, evitando di immergersi nell’ascolto della musica. Ma la rinascita fu repentina ed ebbe il viso di un ritorno alle origini, attraverso il riffing istintivo e geniale di Richards, attraverso una riconquista dell’età adulta che era ricerca di sporcizia e di comunicazione della realtà cruda e primaria, il cesso sporco di Beggars’ Banquet. Da quel 1968 iniziano i gradi dell’ascesa che porta a Exile on Main St., e, come abbiamo visto, non oltre.

    “Exile”, perché il gruppo nel 1971 era veramente in esilio: un esilio quasi dannunziano (ed in parte altrettanto francese), per debiti allo stato britannico; il nuovo materiale, che in parte risaliva alle sessions dei progetti precedenti, fu rielaborato e ricompattato nella casa-studio di Keith Richards in Provenza, in una caotica atmosfera in cui la band sfiorò i limiti della formazione aperta, con visite continue da musicisti americani fra cui Gram Parsons (appena reduce dall’avventura con i Flying Burrito Brothers), e poi, ancora in esilio, negli Stati Uniti, con il contributo di Billy Preston alle tastiere.
    E di disco americano non si può non parlare: Exile è un album nero, più nero ancora di Sticky Fingers, letteralmente tormentato e terremotato da fiati e organo, soul e gospel; non c’è un momento del variegato repertorio in cui questa sensazione di ruvidezza rurale venga meno, non c’è un istante in cui la tensione si allenti, neppure nelle ballads dal respiro campagnolo (Sweet Virginia), neppure nei brani più elaborati; il risultato generale è una percezione di solida consapevolezza che supera qualsiasi precedente nella discografia della band, dimentica di qualsiasi infantilismo e priva di momenti di debolezza: la vera chiave della grandezza dell’album, mi rendo conto ora, ancor più della solidità delle canzoni.

    Non che questa manchi, tuttavia: nella straordinaria apertura Rocks Off (che presenta inoltre un interessante ponte a 2’10”), nella trascinante All Down the Line (forse il più tradizionalmente stonesiano dei boogies), nella conclusione sghemba di Soul Survivor la ritmica drop-d di Richards trova alcuni dei suoi riff più precisi e perfetti; idealizzando poi la supremazia del “genere” e di un’interpretazione storicista della musica commerciale del secondo dopoguerra, si potrebbe arrivare a dire – e non mi sorprenderei fosse stato fatto – che le semplici e scabre ossature chitarristiche della dinoccolata Ventilator Blues, di Rip This Joint, Shake Your Hips, Turd on the Run (tra bluegrass ed epica rurale) e Stop Breaking Down costituiscano la più compiuta realizzazione della sua carriera di strumentista. Non che la solista di Taylor sia meno splendente: acuminata o lisciata dal bottleneck (o in ambo le vesti, come, in Casino Boogie), si libra in continui, mai inopportuni arabeschi, integrandosi perfettamente con le muraglie di fiati e tastiere. La voce di Jagger, pure, non mostra segno di calo: spesso armonizzata in traccia doppia (talora pare addirittura tripla, ad esempio in Torn and Frayed) ha il calore e la maturità di un professionista consumato, e spicca nonostante la sepoltura nel mix, in un gospel memorabile come Tumbling Dice (tra i capolavori della band), ma anche nel semi-scat della tribale I Just Want to See His Face, con punte di cinismo proprio nel calore delle ballads (Shine a Light, la cupa Let It Loose); ma vorrei spendere un’ultima parola per il sax di Bobby Keys, che risplende e sovrasta nella sezione fiati ipersfruttata e colora l’impasto con occasionali e sinceri tocchi di genio, come la coda di Loving Cup.

    Il voto non può che essere alto, la scelta è più una questione di coerenza intellettuale; davvero potrei assegnare la cifra interprete di una preferenza massima, non scavalcabile, a quello che, tutto sommato, è un semplice album di blues elettrico?
    Ma assegnando questo 10/10 ai Rolling Stones di Exile on Main St. io, pronto a smentire nel soffio d’un istante, dichiaro pace fatta con la mia formazione di ascoltatore: a me questa musica commerciale del secondo dopoguerra piace da morire, potrei negarlo ovunque ma non di fronte ad un album come questo, o come Who’s Next.


    ciao cari esco a bere a Busalla.

    Edited by Shagrath82 - 23/10/2013, 20:00
     
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    "After Bathing At Baxter's" , Jefferson Airplane

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    Uscito nel 1967, viene considerato dai critici musicali una pietra miliare della musica rock. I californiani Jefferson Airplane avevano già fatto il botto con "Surrealistic Pillow", che li aveva resi celebri come i padrini dell'acid rock. Propiro l'anno di Sgt. Pepper dei Beatles, i Jefferson escono con questo disco molto sperimentale. Infatti "Afetr Bathing at Baxter's" è un vero e proprio miscuglio di generi: ballate surreali, rock classico, divagazioni etniche con influssi arabeggianti, rock psichedelico, acid blues.
    Se l'apertura del disco è abbastanza tradizionale ( The Ballad Of You & Me & Pooneil ), la seconda traccia presenta echi zappiani, è con "reJoyce" che ci troviamo la prima vera e propria traccia alternativa. Una bizzarra ma efficace rilettura del famoso testo di Joyce, dove un tappeto di flauti accompagna degnamente il cantato della Slik, molto ispirato e quasi spirituale. La suite "Spare Chaynge" è la più arabeggiante, mentre "Wild Tyme" e la bellissima "Watch Her Ride", si rivelano essere i brani piu' appetibili e dall'ascolto meno impegnativo e cerebrale: due melodie che trascendono per un attimo lo spirito di anarchia della band, diretta derivazione dell'utopia di quella breve ma intensa stagione.
    "Two Heads" ha un titolo che appare un manifesto: la scissione mentale e psichica narrata può rifarsi senza alcun dubbio all'utilizzo dell'acido lisergico, visto come mezzo per poter giungere alla pace, all'unione, sballo ed utopia. Insomma, un vero manifesto anarchico, oggi quasi commovente nella sua ingenuità. Ma non scordiamoci che siamo nel 1967, un lustro prima dell'esplosione del punk, siamo all'esplosione del movimento hippie, prima del 1968 e della perdita dell'innocenza della musica.
    Infatti la conclusione del disco è affidata al dittico "Won't You Try / Saturday Afternoon". E' una melodia ipnotica e stralunata, che equivale piu' o meno, a un commiato del gruppo: una esortazione a riunirsi tutti insieme "lisergico-appassionatamente" in un sabato pomeriggio. Implicito, uno spirito sottilmente orgiastico/"absolutely free", senza inibizioni di sorta.
    In conclusione, album storico, da ascoltare più volte per poter essere apprezzato dalla maggior parte degli ascoltatori, ma che ha contribuito in maniera fondamentale a diffondere il rock psichedelico. Rock ma anche pop, sicuramente di gran classe e di altissima caratura artistica.
    VOTO: 9
     
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  10. marcodonà
     
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    ehi ragazzi ci stiamo ascoltando dei bei discotti. crunch! bòni.

    CITAZIONE (Bottigliå @ 13/9/2013, 09:08) 
    "Second hand news" apre il cd e fa come da dichiarazione d'intenti a livello musicale per il resto del disco

    in parte è vero, e almeno per quanto riguarda Buckingham è una dichiarazione d'intenti per il resto della carriera. La sua struttura ciclica, che un po' ti ha annoiato, è forse la chiave di lettura del brano; per me è geniale (certo su Tusk c'è That's Enough For Me...).
    Ecco forse il mio problema con Rumours è che, tutto sommato, c'è poco Buckingham :sisi: e la McVie che era pure una bella zoccolona non mi fa sempre impazzire come autrice.

    CITAZIONE (Shagrath82 @ 14/9/2013, 10:58) 
    "After Bathing At Baxter's" , Jefferson Airplane

    secondo me il principale problema, e forse lo hai percepito nettamente e lo sfiori nella descrizione quando parli di ingenuità, è che After Bathing è suonato malissimo. Kaukonen è fastidioso e deliro come soltanto sarà nei momenti peggiori di Volunteers, Kantner ci da giù come se dovesse zappare la terra..solo i brani della Slick sono un po' più ordinati e hanno belle soluzioni di arrangiamento (ad es. il pattern di batteria di Two Heads); per il resto, se uno ascolta vicini questo ed il successivo Crown of Creation, sembra di avere di fronte un'altra band. Peccato, perché il materiale è molto più interessante ed avventuroso qui.
     
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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    già Volounteers è suonato meglio.
    Ma non scordiamoci che il prog era agli albori. C'erano un sacco di gruppi che suonavano in maniera appena discreta, ma la musica rock era come un'enorme tela bianca tutta da disegnare, dipingere, in tutti i stili del mondo.
    Poi non è che i Beatles fossero i Dream Theater eh...:hihi:
     
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  12. marcodonà
     
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    CITAZIONE (Shagrath82 @ 14/9/2013, 11:22) 
    già Volounteers è suonato meglio.
    Ma non scordiamoci che il prog era agli albori. C'erano un sacco di gruppi che suonavano in maniera appena discreta, ma la musica rock era come un'enorme tela bianca tutta da disegnare, dipingere, in tutti i stili del mondo.
    Poi non è che i Beatles fossero i Dream Theater eh...:hihi:

    ma che propiro c'entra il prog? Bisogna suonare prog per essere bravi musicisti?
    I Jefferson Airplane sono strumentisti di una certa caratura eh! Oltre a Kaukonen, la sezione ritmica è di formazione jazz (Casady e Dryden). L'unico che non sa fare un cazzo è Marty Balin (ed in After Bathing infatti non fa quasi nulla: scrive solo un bel blues rotante, fra le gemme nascoste del disco secondo me).
    Ma tutta la scena californiana ha coltivato delle belle mani: per sganciare subito l'asso, i Grateful Dead hanno le palle straquadrate.

    Il problema è che questi (JA) si disfavano di droga dalle 7 del mattino, e forse anche la mancanza di un nucleo direttivo solido in parte dovuta alla temperie culturale.
    Se After Bathing doveva essere un disco liberante, si capisce anche l'approccio approssimativo (che, ripeto, ti fa anche comodo se stai mezzo fulminato).
     
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    Grateful Dead hanno le palle straquadrate.

    questo è vero.
    Ma un sacco di questi artisti si sono artisticamente rovinati dalle droghe in quel periodo. Certo, alcuni pensano che senza droghe non avrebbero mai creato certi capolavori, ma io non credo. Se sei un genio lo sei sempre
     
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    "Starless and Bible Black" dei King Crimson

    Uscito nel 1974 costituisce una svolta nella produzione della band prog inglese.
    Intendiamoci: i King Crimson sono sempre stati sperimentali, ma con questo disco spostano ulteriormente il concetto. Come se si trattasse di una jam session in sala prove, o la classica improvvisazione jazz dal vivo, la band di Palmer altro non fa che registrare oltre metà disco dal vivo ad Amsterdam per poi pulirla, remixarla in studio e farci sovraincisioni. Il risultato è un disco schizofrenico, liquido, ma allo stesso tempo molto "verace".
    Per un ascoltatore casuale o comunque alle prime armi può spiazzare ed magari anche annoriare :hihi:, ma se ci si lascia trasportare dai vari suoni impnotici non può non conquistarvi.
    Da segnalare la bellissima opener "The Great Deceiver" dove a farla da padrone sono l'insolita accoppiata basso/violino. Così come la bellissima "The Nnight Watch" dedicata a Rembrandt (avete presente la ronda notturna?) si fa apprezzare per la bellissima arpeggio di chitarra.
    Ma, secondo me, a rendere questo disco un capolavoro è la splendida suite "The fracture", lunga oltre 11 minuti.
    Un disco da avere e da ascoltare. Per chi ama il rock anni settanta e in particolar modo il prog è irrinunciabile; ma piacerà anche ai fans del jazz.

    VOTO: 8,5
     
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    Esagerato, stai tranquillo e pensigh no

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    "Spiritual Black Dimension" dei Dimmu Borgir

    Questo album è opera della non propriamente popolare band norvegese dei Dimmu Borgir. Uscito nel 1999, è considerato una perla del genere Symphonic Black Metal. Fino ad ora non sapevo nemmeno che esistesse questo genere, ma pur essendo completamente ignorante sul tema devo riconoscere l'altissimo livello artistico di questo album.
    L'album parte col brano Reptile, gagliardissimo esempio di come si possa fondere una melodia metal con atmosfere sinfoniche che danno l'impressione di trovarsi nel bel mezzo di un sabba. La voce non propriamente adatta a cantare ninne nanne di Shagrath (a proposito: ha ancora le corde vocali?) è ciò che ci vuole in un sound di questo genere. Behind the Curtains of Night - Phantasmagoria è una canzone da non ascoltare di notte in un castello scozzese abbandonato, pena allucinazioni a base di fantasmi e demoni. Segue Dreamside Dominion, un brano "tranquillo" dove una povera faringe si trascina seguendo una partitura di pianoforte sicuramente suonato dalla mano degli Addams. A grande sorpresa, alla fine di questo brano si sentono anche chitarre quasi cristiane. Dura poco... Shagrath torna più cattivo che mai con United in Unhallowed Grace, un'altra melodia dell'oltretomba. Tuttavia quei burloni dei Dimmu eseguono un riff a tratti rilassato dove l'unico ad essere perennemente incazzato è il cantante. Segue The Promised Future Aeons, dove a divertirsi è sicuramente il tastierista, ma poi si scoperchiano le tombe e le anime dei dannati escono dall'inferno in fila indiana dopo poco meno di due minuti, così come la lunga serie di borborigmi mefistofelici e un assoli di chitarra del demone tentatore di Santana. Lo stesso demone cerca di cucire le corde della chitarra con lana di capra maledetta in The Blazing Monoliths of Defiance, dove Shagrath è più carico che mai, in bilico tra voci diaboliche, aerofagia e urla di dolore. Il rutto più lungo della storia del rock apre The Blazing Monoliths of Defiance, sempre caratterizzato dall'organo spettrale e da una vigorosa batteria demoniaca. Incredibilmente, nel brano compaiono anche voci umane e qualche momento di musica "normale" che sembra un copy-paste di Pink Floyd con Roger Waters affetto da laringite. Ovviamente, in men che non si dica le orecchie dell'ascoltatore sono brutalmente percosse dal metallo, e poi ancora nel brano successivo Grotesquery Conceiled, violentate da voci basse e infine da un urlo dell'altro mondo. Si alternano voci più o meno basse, poi l'arrivo dei Cavalieri dell'Apocalisse convertito in musica. La conclusiva Arcane Life Force Mysteria fa riposare un po' le povere braccia del batterista e lascia i suoni "sinfonici" padroni assoluti del brano... per poco meno di un minuto! L'album si conclude con un crescendo di musica e cantato, che dà quasi l'impressione di compressione del'esecuzione in velocità crescente, come se il gruppo avesse registrato l'album l'ultima ora del venerdì pomeriggio.
    Pazzesco, veramente pazzesco. Non avevo idea che un album metal potesse essere così denso, e per questo mi chiedo come si possa concepire di ascoltare Spiritual Black Dimension guidando l'auto o chattando con la morosa.

    VOTO: 8
     
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19 replies since 10/9/2013, 10:54   102 views
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