Go review that album! Secondo Turno

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Madre, donna, lesbica. What else?

    Group
    Member
    Posts
    19,157
    Location
    Culla Bianconera

    Status
    Offline
    "Galaxy" dei Rockets

    Sono in difficioltà a recensire questo disco. Non tanto per lo stile assolutamente lontano dai miei gusti abituali, ma per il semplice fatto che il disco in questione è assurdo, schizofrenico, che alterna canzoni veramente gradevoli come la title track, o come "Mechanic Bionic" con un simpatico ritornello a pastrocchi osceni che mostrano tutti i loro anni. Sopratutto trovo sgradevoli le tastiere synth che a volte sembrano messe a cazzo, oltre a tutte le voci modificate coi vocoder. Purtroppo perché le canzoni più "tradizionali" sono molto valide, come "One more mission" con un suono di chitarra molto tradizionale, a tratti simile a quella dei Pink Floyd, o comunque fortemente debitrice della corrente space-rock e cosmic rock in voga alla fine degli anni Settanta. Anche "Universal Band" ha un buon ritmo, suona più anni Settanta che Ottanta, sopratutto nel bel ritornello.
    Così come Prophecy, forse la conzone più commerciale del disco ma anche quella che dove l'elettronica si amalgama meglio rispetto al resto della linea melodica, dove i synth hanno la predominanza, ma non risultano invandendi, forse la canzone nata meglio.
    Il resto è abbastanza trascurabile.
    Concludendo, mi trovo in difficoltà a dare un voto a questo disco: per il valore delle canzoni sarebbe anche 7, ma gli arrangiamenti, l'uso spasmodico dell'elettronica e dei vocoder lo rendono anche atrocemente pacchiano, sarebbe da 4
    Quindi 7+4=11, la media 5,5, arrotondo per eccesso perché sono buona

    VOTO: 6

    Edited by Shagrath82 - 15/12/2013, 21:22
     
    .
  2.  
    .
    Avatar

    Group
    Member
    Posts
    14,408

    Status
    Offline
    QUOTE
    "Musica Rovinata" dei Fratelli Calafuria

    Secondo disco (se si eslcude il loro EP) della band milanese che è riuscita a farsi la nomea di band culto nel panorama alternative italiano (vedendo anche cosa offre direi malignamente che è pure facile :hihi:).
    I fratelli milanesi mischiano chitarre rock e sonorità hardcore, suoni dark, new wave e distorsioni elettroniche a go-go. Nel disco troviamo canzoni abbastanza dirette e tirate come Fare casino e ballatone come Loretta, altri brani molto più "atipici" e sperimentali come Pulsatoni Pezzo giallo.
    Non mi soffermo su nessuna canzone in particolare, perché, nonostante lo abbia diligentemente ascoltato per tre giorni di fila, non mi ha lasciato nulla, tranne forz Fare casino. Forse non è un sound adatto alle mie orecchie, o forse sono io che sono allergico alle sonorità sperimentali. Il problema che sperimentare nella musica era oggettivamente più facile trent'anni fa, per non parlare degli anni 60-70. L'universo musicale era completamente da esplorare, bastava anche azzeccare quattro note e veniva fuori una canzone come Hey Jude. Scusate se è poco. Le note sono sempre quelle, e le combinazioni armoniche ormai sono finite, e gira e rigira i canoni sono stati usati, sviscerati, riciclati fino alla nausea (quanti artisti hanno utilizzato il celebre canone di Pachelb?). Quindi si deve sperimentare, usando magari la tecnologia, o comporre "canzoni" sempre meno armoniche, ricche di dissonanze, tutto il più lontano possibile da qualunque ricordo di canzone tradizionale, armonia, tono. Ora, se sei un genio, puoi fare bene anche questo tipo di musica. Se non lo sei, o passi per cretino, oppure devi sperare che qualche critico musicale ipersnob ti incensi e ti elevi a band culto. Cosa che credo sia accaduta per questi ragazzi. Buon per loro.
    Ho letto su internet un recensore che diceva che hanno la faccia come il culo. Ci credo, se sperimenti e vuoi far passare il tuo lavoro per qualche cagate artistica la devi avere! Un altro scrive che non lasciano indifferenti, pososno piacere o meno ma non possono stare sul cazzo. Ecco, che bello, io sono uno di quelli :hihi:

    VOTO: 4,5
     
    .
  3. Ni'
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE
    L'universo musicale era completamente da esplorare, bastava anche azzeccare quattro note e veniva fuori una canzone come Hey Jude. Scusate se è poco. Le note sono sempre quelle, e le combinazioni armoniche ormai sono finite, e gira e rigira i canoni sono stati usati, sviscerati, riciclati fino alla nausea (quanti artisti hanno utilizzato il celebre canone di Pachelb?).

    può sembrare che sia così, ma ti assicuro che non è.
    e gli anni '60 e '70 non sono così lontani, pensare che in 30 anni sia "finita la musica" (ovvero proprio terminate le possibilità) fa un po' ridere, permettimelo.

    ovviamente non sono chi dico di essere (scusate non ho voglia di sloggarmi )
     
    .
  4.  
    .
    Avatar

    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

    Group
    Administrator
    Posts
    73,816
    Location
    Torino

    Status
    Offline
    "La Buona Novella" di Fabrizio de André.

    Il disco è un capolavoro. Voto: 10

    Ah, scusate, magari devo espandere il concetto.
    Premessa, questo è un concept album, uno dei primi in Italia, uscito nel 1970 ed ispirato alla vita di Maria e di Gesù narrata nei vangeli apocrifi, quindi ci danno una visione più umana ed intima rispetto a quella che possiamo ricavare dai quattro vangeli canonici. Bene, la bravura di un artista non sta solo nel saper creare nuove opere originali (in questo caso canzoni), ma anche nel rompere le tradizioni, porsi fuori dagli schemi. Ora, immaginiamo questo disco che scalpore che fece nel 1970, in piena epoca di controcultura e rivolte studentesche, dove tutto ciò che poteva essere accostato alla morale borghese, all'ordine costituito veniva tacciato di passatismo, reazionario, addirittura fascista. Invece De André capì che l'idea di base poteva essere geniale e più rivoluzionaria delle proteste con il libretto rosso di Mao in mano.

    « Quando scrissi "La buona novella" era il 1969.

    Si era quindi in piena rivolta studentesca; e le persone meno attente - che poi sono sempre la maggioranza di noi -: compagni, amici, coetanei, consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: "cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall'autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi." .... Non avevano capito - almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza - che La Buona Novella è un'allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell'autorità si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali. »

    (Dal concerto al teatro Brancaccio, 14 febbraio 1998)

    Musicalmente il disco si può, per certi versi, far rientrare nel genere folk, con la sua anima profondamente cantautorale. E diciamo pure che De André smette sia i panni dell'artista goliardico (ricordate la celebre "Re Carlo tornava dalla guerra" scritta con un certo Paolo Villaggio?) o del poeta sublime ma anche troppo criptico. I versi sono delicati, comprensibili a tutti, ma non banali. Affiorano immagini delicate (Maria viene data in sposa ad un uomo gentile ma anziano: "la diedero in sposa a dita troppo secche per chiudersi su una rosa", oppure "parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno ma impresse nel ventre" dopo che l'angelo ha annunciato a Maria la sua futura gravidanza).
    Così se la prima parte è quella delicata dedicata all'infanzia di Maria e alla sua nascita (Ave Maria), la seconda parte con "Maria nella bottega di un falegname" presenta la parte peggiore per una madre: la morte del proprio figlio.
    Si passa infatti dai versi radiosi

    Ave Maria, adesso che sei donna,
    ave alle donne come te, Maria,
    femmine un giorno per un nuovo amore
    povero o ricco, umile o Messia.
    Femmine un giorno e poi madri per sempre
    nella stagione che stagioni non sente.


    a quelli ben più drammatici:

    Mio martello non colpisce,
    pialla mia non taglia
    per foggiare gambe nuove
    a chi le offrì in battaglia,
    ma tre croci, due per chi
    disertò per rubare,
    la più grande per chi guerra
    insegnò a disertare


    La canzone via della croce è quella più anarchica del disco, quella più in stile De André, ed è anche la meno riuscita, ma basta andare alla successiva "Tre Madri" per tornare a livelli altissimi, dove Maria assiste alla morte di suo figlio, dove rimpiange il fatto che Gesù sia figlio di Dio, quindi destinato alla morte (Non fossi stato figlio di Dio, t'avrei ancora per figlio mio.), ma ad essa si contrappongono le altre madri, destinate a non rivedere mai più i loro figli:

    Con troppe lacrime piangi, Maria,
    solo l'immagine di un'agonia;
    sai che alla vita, nel terzo giorno,
    il figlio tuo farà ritorno.
    Lascia noi piangere, un po' più forte,
    chi non risorgerà più dalla morte.



    La chiusura è affidata alla stupefacente "Il testamento di Tito", dove il ladrone buono crocifisso, analizza in maniera sarcastica tutti i dieci comandamenti, dove vengono prese di mira le ipocrisie dei potenti, che usavano la religione per giustificare il loro dominio e le loro prevaricazioni.
    Aprono e chiudino in maniera speculare "Laudate Domini" e "Laudate Homini", in quest'ultima si invita a lodare l'uomo, e non in quanto figlio di un dio, ma in quanto figlio di un altro uomo, quindi fratello.
    Quindi, ricapitolando, per me questo è il miglior disco di De André, assieme a Creuza de mà, ma a livello di testi "La buona novella" è assolutamente superiore. Non importa che abbiate fede o meno, se credete questo disco non vi urterà sicuramente, anzi, è probabile che vi commuova, se siete agnostici, atei o in crisi, lo apprezzerete lo stesso, come un ateo può apprezzare un'opra d'arte. In fondo, mica occorre essere credenti per apprezzare "La vergine delle rocce" di Leonardo da Vinci o i dipindi di Caravaggio.
    L'unico voto possibile è il massimo:
    VOTO: 10

    P.S. Se possibile è ancora migliore la versione live pubblicato postumo nel 1998, ci sono quasi tutte le canzoni del disco e sono presentati con un arrangiamento fantatsico
     
    .
  5.  
    .
    Avatar

    Group
    Member
    Posts
    9,662

    Status
    Anonymous
    Penso che "Il testamento di Tito" sia davvero il capolavoro massimo di De André. Con l'arrangiamento della PFM live poi diventa qualcosa di sublime.
     
    .
  6.  
    .
    Avatar

    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

    Group
    Administrator
    Posts
    73,816
    Location
    Torino

    Status
    Offline
    CITAZIONE (Creeping Death @ 28/9/2013, 13:05) 
    Penso che "Il testamento di Tito" sia davvero il capolavoro massimo di De André. Con l'arrangiamento della PFM live poi diventa qualcosa di sublime.

    no, mi riferisco a questo live

     
    .
  7.  
    .
    Avatar

    Group
    Member
    Posts
    9,662

    Status
    Anonymous
    CITAZIONE (Shagrath82 @ 28/9/2013, 13:08) 
    CITAZIONE (Creeping Death @ 28/9/2013, 13:05) 
    Penso che "Il testamento di Tito" sia davvero il capolavoro massimo di De André. Con l'arrangiamento della PFM live poi diventa qualcosa di sublime.

    no, mi riferisco a questo live


    Si, l'avevo capito, io mi riferisco a quello del '78.
     
    .
  8. marcodonà
     
    .

    User deleted


    CYBORG di Klaus Schulze

    bene! Ci siamo! Giovedì mattina le mie orecchie vedevano lontano il profilo dei nuovi scheletri di Via Bargagna, i casermotti dell’ospedale di Cisanello, qualche lucertola sulla via spaventata forse dallo sfrigolare dei synth sequenziati di Klaus Schulze. La mia recensione sarà come sempre lunga e stavolta un po’ irrituale, anche perché questi giorni sono stati e sono fra i più frastornanti di un anno certo non povero di fatiche, di mutamenti.

    La grandezza di Klaus Schulze non la potrebbe negare con facilità nessuno: se il suo statuto può rimanere quello, ambiguo, del compositore serio idolatrato da una critica che ha nella musica radiofonica il suo riferimento e che quindi, spesso, offre tributo più alla superficie che al fondo, è vero anche che questa musica è giunta nei dizionari, nelle webzines, nel testolino di tu che mi leggi, in maniera tendenzialmente retrospettiva e con uno sforzo di marketing che non è difficile immaginare titanico: per questo si stampò l’etichetta di “cosmico”, che a Schulze non piacque mai, forse perché il 1969 era ancora vicino, ma, d’altro canto come proporre di ascoltare quella musica pensando ad un sentiero ciclopedonale fra Caprona e Colignola, con il naso pizzicato dall’odore delle vinacce di un vigneto (gramo) rubato al gomito dell’Arno? Ci fu chi si tenne a galla su questo patacchino astrale fin da subito, e certo anche Schulze ne fece proprio uso, ma non gli piacque mai: già i titoli di Irrlicht (cimiteriale ben più che astrologico) lo testimoniavano, l’unico spazio davvero evocato quello di un villaggio alpino dell’alta Engadina, con le sue chiese pizzute, i prati sconfinati, la casa del sempre amato Friederich Nietzsche.

    Non è diversamente meno “cosmico” o, in genere, spaziale il seguito Cyborg, cui finalmente approdo nel discorso; se un tema conduttore si può rintracciare all’interno dell’opera è piuttosto, come suggerisce il nome, la compenetrazione di carne e pensiero con meccanismi ed impulsi elettrici: in questo parlano titoli come “Chromengel”, come “Neuronengesang”. Un interesse introspettivo, quindi, uno sguardo verso l’interno ed il profondo ben più di un’estensione della mira al di là della stratosfera; ma anche, probabilmente, un gioco bonario sul contenuto, sulla musica: Cyborg si potrebbe descrivere -certo in maniera un po' sempliciotta ma tant'è- una commistione di elemento umano (i nastri d’orchestra, l’organo) e di elemento inumano (il synth, i sequencer). L’ingresso della tastiera elettronica ed il suo uso prevalentemente ritmico modificano la concezione stessa sottesa alla realizzazione dei quattro lunghi brani che popolano i due lp, resi indipendenti sostanzialmente dal ruolo giocato in ciascuno di essi dal sintetizzatore e dai pattern successivi del sequencer. A partire da questa base identitaria, talora ossatura metronomica, si sviluppano le variazioni, ordinate (ecco l’unico vero κόσμος) con attenzione millimetrica; per descrivere anche solo gli snodi principali di queste quasi due ore di musica non basterebbe lo spazio di una recensione e sarei ancor più certo di ora di avere come lettore solo Dude, che il disco lo ha già ascoltato. Perciò sarò più breve qui che altrove.
    La prima facciata è occupata da Synphära (titolo ellenizzante ma probabilmente parto di pura eufonia): l’ingresso è affidato ai nastri d’orchestra, in una transizione verosimilmente programmatica da Irrlicht, ma presto su di essi si innesta lo sfrigolio del synth a proporre geometrie ininterrotte; lo sviluppo porta al loro predominio, tramite l’alternarsi dei temi orchestrali fino a sparire, sostituiti dalla voce della tastiera elettronica che sembra imitare le partiture cucite nella prima parte con mugolii e rintocchi.
    Conphära (alternativa latina a Synphära, visto che con = σύν) spicca fra le quattro pièces: la sua evoluzione si innesta su una pulsazione incessante di sintetizzatore portata avanti all’unisono con timbri (sempre di synth) percussivi e con un drone di tastiera bassa; su questo scenario s’intreccia una densa e solenne alchimia sonora di orchestra (stavolta accordi più alti in pitch) ed organo. Il suono è magmatico, il controllo compositivo totale: l’apice del disco.
    Se il primo lp è quindi attraversato genericamente dal concetto di "aggregato", nel secondo l'insieme uomo-macchina è mitizzato fino alla figura di un Chromengel, brano più scorrevole dell'album, sorta di inno liturgico presto fatto ribollire da un insistente terzinato di sequencer cui talora si sovrappongono patterns ritmiche differenti; la progressione di accordi prosegue fra trionfali aperture e cupe transizioni in minore. Dopo l’introduzione, lo sviluppo sembra brevissimo e la brusca chiusura arriva inaspettata.
    Neuronengesang, al contrario, è governata dall’idea stessa di dilatazione e ciò nonostante resta il momento di massima solennità della raccolta: in essa prende calore la sperimentazione timbrica sulla tastiera elettronica, protagonista insieme a divaganti partiture per organo riverberato; a volte il tessuto sonoro delle continue bordate sintetiche sembra sfilacciarsi fino a sfaldarsi. L’effetto atmosferico è senza eguali, e lo sviluppo del brano sorprende fino alla tensione fortissima degli ultimi minuti, che fa strada alla punteggiatura di una nuova pulsazione pronta ad accompagnare il brano alla sua coda in un vellutato ma impressionante crescendo che ancora una volta porta al nulla.

    Se Schulze decise di arrendere la propria sensibilità avanguardista alle comodità di una verbosa inconsistenza, è un suo limite desolante quanto ormai irrimediabile: la forma della sua produzione sarebbe deragliata a distanza di soli vent’anni in colossali sbrodolate moltiplicanti i CD (fino a 50 per box set) e non oso neppure immaginare come e quanto proseguita e proseguente mentre scrivo queste parole, anzi mentre scrivo ogni singola lettera. Ma la sua grandezza di compositore elettronico è testimoniata in maniera indelebile: la Germania dovrebbe ben andare fiera di aver dato i natali a questo giovanotto che con una manciata di nastri e due tastierine scriveva e realizzava Cyborg. Viva la Germania!!! Viva HITLER
    Un’obiezione su Cyborg, come su quasi tutti se non tutti gli album di questa e della prossima fase della carriera di Schulze, come su molti degli album dei suoi emuli e colleghi, è: quanto la necessità materiale imposta dal supporto abbia condizionato l’estensione e di conseguenza la struttura interna dei singoli movimenti. Oggi è facile sostenere teorie che vedono nei limiti del 33 giri una funzione di contenimento preziosa per la musica strumentale d’avanguardia; ma, insieme, quanto lo sviluppo di un brano potesse essere allora condizionato dalla mera fisicità della superficie d’incisione è difficile definire. Rimane una pura speculazione, ma su un album come Cyborg, non un’opera in quattro movimenti ma una raccolta di quattro opere diverse, la domanda è quadrupla, specialmente in luce delle chiusure alquanto brusche che accomunano i due brani del secondo lp.

    9

    Edited by Shagrath82 - 23/10/2013, 20:01
     
    .
  9.  
    .
    Avatar

    Group
    Member
    Posts
    9,662

    Status
    Anonymous
    The Ruiner dei Made Out of Babies

    Dunque dunque, eccomi qua.

    The Ruiner dei Made Out of Babies mi sembra essere un disco che rientra pienamente nei canoni del post-hardcore/post-metal et similia. Le chitarre risentono moltissimo dell'influenza di gente come Osborne e Denison. In sostanza quindi non è un disco che rivoluziona il mondo della musica nè "dice niente di nuovo", ma rimane comunque un album discreto, con la particolarità della voce femminile, Julie Christmas, cosa non frequentissima in questo genere, e che penso sia il punto focale di tutto l'album. E devo dire che ha una voce di una potenza e un carattere davvero soprendenti. Il muro sonoro e la sezione ritmica che la supportano poi fanno si che le tracce siano tutte molto potenti e trascinanti, nonostante la venatura "paranoico-malinconica" del cantato e dei testi.
    Non trovo molto altro da dire, perchè nonostante sia di buona fattura e ben suonato, non credo che questo album sia nulla di particolarmente originale o innovativo.
    Ciò nonostante, un bel 6,5 se lo merita tutto.

    Edited by Shagrath82 - 23/10/2013, 20:03
     
    .
  10.  
    .
    Avatar

    Brava Giovanna... brava.

    Group
    Member
    Posts
    2,005
    Location
    La terra dei cachi

    Status
    Offline
    I Finntroll nascono a Helsinki nel 1997. Pubblicano il primo demo nel 1998 e il primo album un anno dopo. Nel 2001 è la volta del secondo album, intitolato “Jaktens Tid”, che permetterà alla band di riscuotere un discreto successo in patria. Pur essendo finlandesi cantano in svedese.

    Al momento della pubblicazione di “Jaktens Tid” la band è composta da:
    -Jan Jamsen, detto “Katla”: voce, che lascerà il gruppo con l’uscita dell’album successivo per un tumore alle corde vocali
    -Samuli Ponsimaa e Teemu Raimoranta: chitarre (il secondo morirà sucida nel 2003)
    -Sami Uusitalo: basso
    -Henri Sorvali: tastiere
    -Samu Ruotsalainen: percussioni, batteria
    Cominciamo col dire che la base dei Finntroll è il black metal, che tanto si diffuse nella zona scandinava circa un decennio prima della formazione della band. Ma non è un black tradizionale, tutt’altro: i Finntroll mischiano il tutto con elementi folkloristici (in particolare la humppa, una danza folk finlandese) ed ecco che a batterie martellanti, chitarre rumorose e cantati “infernali” in gowl si contrappongono pifferi, fisarmoniche, banjo e cori tipici (tra gli altri il “joik”, tradizionale canto lappone, per il quale venne reclutato Jonne Jarvela, leader dei “Korpiklaani”).
    Questi, più che adepti di Satana, sembrano “adepti” delle feste di paese, nelle quali si mangia, si balla e –soprattutto- si beve!
    L’intro del disco crea una buona dose di suspense, prima di liberare “fodosagan”, forse il pezzo migliore del disco, una cavalcata aggressiva durante la quale ho fatto un viaggio: mi sono proprio immaginato questi omoni che escono fuori da un campo correndo e imbracciando asce, mazze, bastoni e, lo ammetto, l’immagine mi ha fatto momentaneamente scagazzare ma… lo stacco su melodie folk ballabili mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo. La mia vita e le mie orecchie sono in salvo!
    L’album è quasi diviso in due parti dall’intermezzo “bakom varje fura”: la prima parte è quella che mi ha convinto di più, fino alla title-track. I pezzi da 7 a 11 aggiungono poco a quanto avevano già detto le prime 5 tracce (a parte il tocco di kitsch in “kyrkovisan”, “the church song” –forse evitabile).
    “aldhissla” cambia registro e si candida ad essere la ballad del disco, pur rimanendo molto “sui generis”.
    Il tutto termina con un Outro dal sapore ambient, che si spegne per qualche secondo per poi riprendere (concludendo) con un minuto abbondante di hummpa, la danza che ricorre in tutti o quasi i pezzi del disco.
    Beh, devo dire che alla fine il disco mi ha convinto. Ok, non è propriamente il mio genere. Ok, sarà certamente un po’ pacchiano. Ma l’atmosfera festaiola che si cela dietro questo album mi piace. I finntroll non vogliono essere sobri né tantomeno seriosi. Vogliono fare musica grezza per gente che si diverte con minimo 2,5 di tasso alcolemico e secondo me, nel loro genere, ci riescono abbastanza bene.
    E’ alla luce di queste considerazioni che affibbio un 6 convinto a “jaktens tid”, una delle mie prime escursioni (non posso certo dire rimpianta) nel campo del metal scandinavo.

    Bene, vi saluto, mi è venuta sete… vado a bere qualcosa!
    Kippis! cheers (come dicono i finlandesi)
     
    .
  11. Bottigliå
     
    .

    User deleted


    Brian Jones present the pipes of pan at Jajouka
    I Master Musicians of Jajouka sono un gruppo berbero di musica sufi, famosi proprio per essere stati promossi da Brian Jones e per i legami che hanno con la beat generations.
    Mi è abbastanza difficile parlare di questo disco data la sua singolarità rispetto agli ascolti che faccio solitamente e anche insolitamente, perciò, comincio citando l'introduzione al disco che fa Brian Jones (membro dei Rolling stone che si è assunto l'incarico di produrre, promuovere e diffondere questo genere di musica):
    "Magic calls itself The Other Method for controlling matter and knowing space. In Morocco, magic is practised more assiduously than hygiene tough, indeed, ecstatic dancing to music of the brotheroods may be called a form of psychic hygiene. You known your own music when you hear it one day. You fall into line and dance until you play the piper."
    Come si capisce dalle sue parole non si sta parlando solamente di musica, ma di musica come magia, musica che interagisce con lo spirito e la mente.
    Non ho ascoltato il disco cercando di capire il valore in se delle singole tracce, ma più per le sensazioni e gli effetti che queste mi hanno provocato, anche perchè non sapendo assolutamente nulla di musica marocchina, ne dello strumento (il flauto di pan) è solo a questo a cui posso riferirmi per "recensire" il disco.
    La prima traccia è una semplice ouverture, che con un crescendo degli strumenti, apparsi come da un diradarsi di una nebbia (immagino fumo più che altro), sempre più intensi cerca di calare l'ascoltatore nella predisposizione mentale adatta per l'ascolto del disco, quasi stordendomi.
    War Song-Standing si compone di una serie di acuti gemiti dello strumento, lunghe note ben definite, che immagino legati al titolo della traccia, per un clima di tensione generale.
    Take me with you darling, take me with you mi ricorda già più un canto africano, fanno la comparsa voci che ripetono un coro su una ritmica sempre uguale, qui sto immaginando la scena attorno ad un fuoco come ci vengono dipinti i villaggi masai e simili, anche se in realtà penso non centrino nulla; l'effetto di questa traccia è quello di imbambolarmi parecchio fino al finale in cui si inserisce quella successiva, Your eyes are like a cup of tea, in cui vengo bruscamente risvegliato dal torpore indottomi dalle voci e dai tamburi attraverso il ritorno dello strumento di War song che il suo timbro aspro e acido e inizia a ripetere quello che sembra essere il motivo del coro nella traccia precedente, con un effetto ben diverso, irruento, il torpore lascia spazio ad un ipnotismo più attivo (sperando che per voi abbia un senso :hihi:). Qui se non altro ci sono anche delle variazioni ritmiche un po' più decise che arricchiscono la trama sincopata.
    Sul finale il suono acuto si uniforma, diventa un unico caotico isterismo che mi sembra corrispondere al traguardo di queste ultime due tracce.
    I am calling out mi riporta attorno al fuoco, questa però è una cerimonia più intima rispetto a quella di Take me with you darling, take me with you, la base ritmica è più lenta e le voci sono maschili, dando un atmosfera più calda e distesa rispetto a prima, nel torpore che torna ad avvolgerti dopo essere stato spazzato via dal finale di Your eyes are like a cup of tea.
    Il disco chiude con Your eyes are like a cup of tea (reprise with flute); fa la sua comparsa il flauto di pan, colui che dovrebbe essere il vero protagonista del disco, e difatti è così, per la durata più che altro (18').
    Dopo i primi 6' in cui si è prima sorpresi per la comparsa di questa sonorità diversa, avvolgente e rilassante rispetto allo strumento acido utilizzato più volte, e poi si è un filino seccati perchè la dopo un po' la nota continua di un flauto che fa da base, con gli altri che ci suonano sopra diventa mi diventa un piatta (anche se inframezzata da schiarimenti di gola di qualcuno e cani che abbaiano); dopo il sesto minuto rientra la ritmica e rispetto alla prima apparizione di questo tema questo a base di flauti di pan coinvolge ancora più.
    Si riprende il tema fino ad avere anche qui un crescento di intensità e di ritmo che sprigiona la frenesia del finale:
    "The music grooves into hysteria, fear and fornication. A ball of laughter and tears in the throat gristle. Tickle the panic between the legs. [...] Man leads monkey around, beating him and screwing him for hours to the music. Monkey jumps on Man's back and screws him to the music for hours. Pipers pipe higher into the air and panic screams off like the wind into the woods of silver olive and black oak, on into the Rif mountains swimming up under the moonlight".
    (di nuovo dall'introduzione fatta da Brian Jones).
    Tutte tracce mediamente lunghe che vanno ascoltate per entrare in uno stato mentale, per lasciarsi condizionare e credo che degli aiuti naturali (o forse anche sintetici), facciano cogliere a pieno le potenzialità di questa musica; durante tutti gli ascolti non sono riuscito a fare a meno di pensare ad un marocco tribale, ma allo stesso tempo da anni '60, basato su sordidi appartamenti e bui bazar.
    Visioni che più o meno sono quelle rappresentate nei libri di W. Borroughs, che si trova tra l'altro tra i produttori della riedizione del disco e che viveva in quel periodo in marocco, vivendolo come un paradiso per le dipendenze, e trasferendo la sua esperienza distorta nei suoi testi
    La stessa conclusione di Brian Jones, che cito qui sopra, parla di una visione di scimmie sulla schiena di un uomo. La scimmia più famosa è proprio quella della dipendenza da droghe. (nonchè di nuovo il titolo di un libro di Burroughs).
    Una musica allucinogena dunque, una musica da trance, da occasione collettiva in cui la mente è libera è si è liberi anche con il corpo ("The music grooves into hysteria, fear and fornication. A ball of laughter and tears in the throat gristle. Tickle the panic between the legs.") ed essa è uno dei medium per raggiungere questa libertà.

    Per apprezzare il disco a pieno penso che avrei dovuto provare l'ascolto in uno stato del genere, ma non è il mio genere di svago diciamo, l'ho ascoltato e ne ho letto con curiosità ma di valutarlo non sarei proprio in grado, per questo: s.v.
     
    .
  12. Dude
     
    .

    User deleted


    Simon and Garfunkel - Parsley, Sage, Rosemary and Thyme

    Marco mi aveva avvisato in anticipo della presenza di "ciofeche" ben riconoscibili all'interno di questo disco: devo dire in effetti che ne ho sentiti pochi altri con una simile variazione qualitativa fra un brano e l'altro. Vado dunque ad interpretare la tracklist, che per me è nettamente imperniata attorno a due episodi superiori: il maestoso arrangiamento di Scarborough Fair da un lato, la meravigliosa The Dangling Conversation dall'altro (non solo la mia preferita del disco, ma in assoluto uno dei brani che più mi hanno folgorato al primo ascolto). Attorno, qualche canzone di media qualità e tanti riempitivi, alcuni davvero superflui (su tutte la parodia dedicata a Bob Dylan e la conclusiva rilettura Silent Night). Quel che colpisce, ancor prima della differenza nell'ispirazione vera e propria, è il diverso livello nella cura dedicata alla presentazione dei brani: si ha proprio l'impressione di un prodotto eterogeneo nell'aspetto, con un paio di brani rifiniti, quasi lambiccati, e gli altri assemblati un po' in fretta e furia. D'altro canto bisogna ammettere che in quasi nessuno degli episodi ci si trova di fronte ad una totale defezione nell'arrangiamento. La lista dei dettagli gustosi, sorprendenti, è lunga: la strofa di Cloudy, con quel morbidissimo intervallo discendente adagiato su un ancor più discendente arpeggio; il ritornello troncato anzitempo di Homeward Bound, per il resto tristemente degna del canzoniere dei Beatles; l'inaspettata modulazione all'inizio del refrain di The Big Bright Green Pleasure Machine, in cui peraltro il duo sembra una versione moscia dei Kinks - a proposito, i Kinks devono essersi ascoltati il girettino di Feelin' Groovy perché la loro Mr. Songbird è proprio simile; infine l'accordo conclusivo di Flowers Never Bend with the Rainfall, di un'eleganza singolare, quasi fuori posto in una canzone abbastanza sciatta. In tutta questa risma di canzoni, o di abbozzi di canzoni, scelgo senz'altro di salvare Patterns, episodio singolare anche come concezione melodica.
    Non è facile valutare un disco del genere, l'entusiasmo per la scoperta di The Dangling Conversation mi spinge ad un forse generoso 7/10 e viva i ceci.
     
    .
  13. Ni'
     
    .

    User deleted


    CITAZIONE (Dude @ 17/10/2013, 00:00) 
    Simon and Garfunkel - Parsley, Sage, Rosemary and Thyme

    Marco mi aveva avvisato in anticipo della presenza di "ciofeche" ben riconoscibili all'interno di questo disco: devo dire in effetti che ne ho sentiti pochi altri con una simile variazione qualitativa fra un brano e l'altro. Vado dunque ad interpretare la tracklist, che per me è nettamente imperniata attorno a due episodi superiori: il maestoso arrangiamento di Scarborough Fair da un lato, la meravigliosa The Dangling Conversation dall'altro (non solo la mia preferita del disco, ma in assoluto uno dei brani che più mi hanno folgorato al primo ascolto). Attorno, qualche canzone di media qualità e tanti riempitivi, alcuni davvero superflui (su tutte la parodia dedicata a Bob Dylan e la conclusiva rilettura Silent Night). Quel che colpisce, ancor prima della differenza nell'ispirazione vera e propria, è il diverso livello nella cura dedicata alla presentazione dei brani: si ha proprio l'impressione di un prodotto eterogeneo nell'aspetto, con un paio di brani rifiniti, quasi lambiccati, e gli altri assemblati un po' in fretta e furia. D'altro canto bisogna ammettere che in quasi nessuno degli episodi ci si trova di fronte ad una totale defezione nell'arrangiamento. La lista dei dettagli gustosi, sorprendenti, è lunga: la strofa di Cloudy, con quel morbidissimo intervallo discendente adagiato su un ancor più discendente arpeggio; il ritornello troncato anzitempo di Homeward Bound, per il resto tristemente degna del canzoniere dei Beatles; l'inaspettata modulazione all'inizio del refrain di The Big Bright Green Pleasure Machine, in cui peraltro il duo sembra una versione moscia dei Kinks - a proposito, i Kinks devono essersi ascoltati il girettino di Feelin' Groovy perché la loro Mr. Songbird è proprio simile; infine l'accordo conclusivo di Flowers Never Bend with the Rainfall, di un'eleganza singolare, quasi fuori posto in una canzone abbastanza sciatta. In tutta questa risma di canzoni, o di abbozzi di canzoni, scelgo senz'altro di salvare Patterns, episodio singolare anche come concezione melodica.
    Non è facile valutare un disco del genere, l'entusiasmo per la scoperta di The Dangling Conversation mi spinge ad un forse generoso 7/10 e viva i ceci.

    evviva evviva
    son contento che ti sia piaciuta The Dangling Conversation: anche io la adoro! E pensare che non è mica divenuta un loro cavallo di battaglia (ma secondo me Simon ci credeva tantissimo). Per me le ciofecone oltre a Dylan e Silent Night includono Big Bright Green, che ho conosciuto in un loro disco successivo (la colonna sonora di The Graduate) e ho sempre odiato.
    Per il resto la prima facciata l'ho sempre piaciuta: ok Homeward Bound, che in effetti ha un ritornello bruttello e che si salva solo per quel troncamento lì. Mi fa sorridere che tu abbia detto Beatles perché c'è una fantastica (sarcasmo ovvio) versione cantata a due voci da Simon e George Harrison che non riguardo se no mi viene il mal di pancia ah vabeh ce l'ho già ma non la guardo lo stesso. Di Cloudy mi piace molto anche l'arrangiamento vocale con la vocina sotto di Garfunkel (d'inciso tutte le armonie vocali le ha scritte lui), di Patterns più l'arrangiamento di chitarra. Flowers invece mi piace, è vero è sciatta è melodiona, ma risolve quel che rimane sempre in sospeso nell'insensata A Poem on the Underground Wall (il "single worded poem comprised of four letters" era una scritta FUCK trovata sul muro); non brutta, insensata. Che senso ha sto robo qui? Eppure è piaciuto a mezzo mondo, credo per il testo o per l'aneddoto che ho dettoto.

    inoltre leggo che Eugene Wright (bassist) and Joe Morello (drummer) of the Dave Brubeck Quartet played on "The 59th Street Bridge Song"

    che cazzonata :hihi:
     
    .
  14. Èttore
     
    .

    User deleted


    Led Zeppelin - Houses of the Holy

    Allora, ci provo, nel poco tempo che ho. (qua non esistono sabati né domeniche)

    La domanda vera è: come posso parlare di Houses of the Holy, che voglia dirne bene o che voglia dirne male, io che lo sento per la prima volta nel 2013, avendo ascoltato poco anche il resto della discografia ed essendo generalmente poco erudito di Led Zeppelin?
    Mettendomi a studiare? Oh, sì, sarebbe la cosa da fare, ma ahimè il tempo proprio non ce l'ho.
    Quindi devo ingoiare il mio imbarazzo e fare quello che posso e dire quello che mi sento di dire.
    Il disco mi sembra molto vario, forse un po troppo, fatico a sentire una qualche forma di unità, che per me è abbastanza importante. L'unica linea che qua e là sento ogni tanto ricorrere è una sorta di "whoismo" strisciante che mi va e non mi va. Niente contro gli Who, ma gli Zeppelin sono gli Zeppelin, non gli Who.
    L'esempio migliore è l'opener, che comunque è senz'altro un ottimo pezzo e uno dei migliori del disco, forse quello più stimolante e con più materiale in assoluto.
    The Rain Song, invece, che mi sembra di capire sia molto amata, se non addirittura un grande classico, devo confessarlo, mi ha molto stancato. L'ho trovata troppo cheeky, troppo tastierosa, quasi pedante. Sì, ecco, pedante.
    Ecco, Over the Hills and Far Away ovviamente la conoscevo bene, e sticazzi. Qua per me c'è uno scarto enorme, all'improvviso la percezione del "classico" fa assumere una profondità assolutamente diversa a quello che sento. Non so che giudizio dare a questo fenomeno, francamente. Quasi mi dispiace, perché mi sento forzata la mano nel valutare la massa critica del brano, ma d'altro canto finalmente posso apprezzare tutte le sfumature del valore storico e del ruolo nell'immaginario, che comunque non può essere che un punto a favore. In ogni caso credo che chiunque si sentirebbe di dire che è un grande pezzo.
    Beh, prendo il coraggio a quattro mani e dico questa cosa: francamente non capisco cosa c'entrino "The Crunge" e "D'yer Mak'er" non tanto con questo disco, ma con il mondo. E non so cos'altro aggiungere.
    Ho trovato davvero notevole Dancing Days, anche se forse sento la mancanza di uno sviluppo, di una via di sfogo a quest'energia che non raggiunge la temperatura sufficiente restando un po' più leggera di quel che avrebbe potuto.
    Di The Quarter apprezzo molto il lavoro sul suono e il tiro che sprigiona, e in questo caso mi sembra un po' meno grave che il pezzo resti sulle coordinate che dichiara fin dall'inizio. Esplora fino in fondo quello che si era proposto ed è un luogo interessante da esplorare.
    Invece non mi ha conquistato affatto The Ocean, che mi sembra di capire sia un altro classico, ma forse in realtà sono tutti classici, non ho bene il polso della cosa. Mi sembra molto confusionaria, e senza una direzione chiara.
    Infine una grande ovvietà, trattandosi dei Led Zeppelin. Questo disco, dove mi è piaciuto, e dove mi è piaciuto meno, è suonato da Dio. Fa proprio godere, sotto quell'aspetto, anche a prescindere da quello che suonano.

    In definitiva, alcuni grandi pezzi, alcuni pezzi interessanti, alcuni pezzi davvero inutili, è un disco per me diviso in tre. E, ripeto, un po' incoerente e dispersivo. Però dotato di una classe infinita.
    Mi perdonerete se lascio questa conclusione a mo' di voto, ed evito di conglutinarla in un numero. L'imbarazzo è troppo, e sono un vigliacco.

    Cheers,
    Ettore

    Edited by Shagrath82 - 23/10/2013, 20:08
     
    .
  15.  
    .
    Avatar

    Group
    Member
    Posts
    9,662

    Status
    Anonymous
    Se posso, cosa intendi per "whoismo"?
    Comunque direi che nonostante tu sia un neofita degli Zep la tua recensione coglie abbastanza nel segno: questo album è decisamente vario e incoerente, ma credo lo sia anche per scelta. Dopo quattro album piuttosto monolitici, credo che i quattro abbiano voluto fare un album un po' di "cazzeggio" (il che non toglie comunque che sia suonato da dio e che ci siano anche dei classiconi come giustamente dici). Effettivamente può suonare strano per i Led Zeppelin, ma a me questa varietà piace. Capisco il tuo giudizio su The Crunge e D'yer Maker, brani che personalmente mi piacciono, ma dei quali non sentirei certo la mancanza se scomparissero domani. Ma mi riesce davvero difficile perdonarti il giudizio su Rain Song (ovviamente scherzo, ma è tipo una delle mie canzoni preferite di sempre :amore: )

    Questo sembra decisamente essere il turno dei senza voto comunque! :hihi:
     
    .
17 replies since 24/9/2013, 16:30   104 views
  Share  
.