Go reiew that album: terzo Turno

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  1. Dude
     
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    ottimo! possiamo passare al

    III turno

    Bottiglia - Creeping
    Ettore - Phaek
    Marcodona - Shagrath
    Cate - Mage
    Feticista - Dude
     
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    Todd Rundgren - A Wizard, A True Star

    2007%2f19834

    Todd Rundgren dopo il suo capolavoro Something/Anything del 1972 era chiamato a dare un degno successore. A Wizard, A true star uscì nel 1973 è fu un mezzo disastro. Perché brutto? No, anche se è sicuramente inferiroe al disco precedente (ma quello era un capolavoro).
    Difficile recensire questo disco.
    Già è un'impresa definirne il genere in cui si muoveva il nostro Todd Rundren. Hard rock? Progressive? Proto punk? Una miscela di questi stili a formare una nuova sonorità? Questo disco spazia dal prog al soul, fino a brani di ottimo pop anni Settanta dove sembra di sentire i migliori Bee Geese
    Non è che andando avanti sia più facile: tanto per dirna una all'inizio troviamo sei tracce tutte mixate insieme, dove non c'è nessuno stacco tra una e l'altra. Anzi, si può dire che ogni canzone sia un medley visti i cambi di stile e di sonorità all'interno dello stesso brano. Troviamo suite lunghissime dove ci sono rimandi a classici soul americani, brani squisitamente prog, altri soul, altri blues. Diciamo che c'è la possibilità di accontentare tutti, ma anche di scontentare molti altri ascoltatori più tradizionalisti, o comunque quelli legati a sonorità più definite. Dalla descrizione che ho appena fatto, infatti, si salta da uno stile all'altro non solo tra canzoni diverse, ma proprio all'interno del brano stesso. Abbastanza spiazzanta, per quanto l'impianto generale resta decisamente ascoltabile anche da parte di utenti non abituati né a sonorità estreme né a brani totalmente sperimentali. Anzi, a tratti le canzoni suonano maledettamente pop e catchy, nel senso positivo del termine. L'unica cosa che a me non fa impazzire sono i coretti in falsetto, ma è un peccato veniale ;)
    Da sottolineare l'utlizzo del computer in maniera molto innovativa (infatti si creò la fama di mago della musica elettronica ancora prima che il termine significasse qualcosa), anche se questo disco fu un disastro: troppi stili, troppo lungo, un vero e proprio suicidio commerciale. A queste scelte di marketing e di editing a dir poco sballate se ne aggiunge una di tipo tecnico. Purtroppo per far stare tutto l'lp su vinile, venne sacrificata la qualità del suono; una bella riedizione masterizzata non sarebbe una cattiva idea dopo tutti questi anni.
    Nonostante questo mezzo passo falso secondo una parte della critica, il disco resta un mezzo capolavoro, da ascoltare più volte per poterlo apprezzare.
    VOTO: 8

    Edited by feticistanylon - 27/10/2013, 18:56
     
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  3. marcodonà
     
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    CITAZIONE (feticistanylon @ 27/10/2013, 14:57) 
    Da sottolineare l'utlizzo del computer in maniera molto innovativa

    cosa faceva giocava a Pong?
     
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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    Bert Jansch - Jack Orion

    Jack orion è il terzo disco dello scozzesce Bert Jansch dove possimao trovare una rielaborazione di numerose canzoni tradizionali scozzesi. Uscito nel 1966, vede la partecipazione del chitarrista John Renbourn in quattro brani dove suona la chitarra e il banjo. I due collaboreranno attivamente nei Pentagle.
    Tecnicamente bravissimo e dotato di un feeling elevatissimo con la sei corde acustica, Bert ci trasporta attraverso otto brani sognanti ed evocativi.
    Jansch costruisce l'intero lavoro intorno alla epica e dilatata rivisitazione della vicenda d'amore e tradimento della title-track, la terza canzone del disco, variante della "Child Ballad 67 Glasgerion" e brano simbolo per un'intera generazione di folksinger così come la celebre "Black Water Side" da cui prenderà spunto Jimmy Page per "Black Mountain Side" e la nervosa "Nottamun Town", canzone molto popolare nei Monti Appalachi la cui melodia originaria è alla base della "Masters Of War" di dylaniana memoria.
    Come potete immaginare, Bert Jansch ha ispirato tantissimi artisti, sia nelle tecnica che nelle tematiche e nello stile. Lo stesso Page ha dichiarato il suo debito nei confronti di Bert Jansch con toni molto elogiativi e non è il solo, lo stesso ha fatto Neil Young definendolo una sorta di Hendrix dell'acustica; la lista di chi ne ha subito le influenze è decisamente lunghina e senz'altro vi rientra anche Nick Drake e lo stesso Dylan.
    Concludendo, un disco veramente piacevole, che preferisco ascoltare nel suo insieme piuttosto che ascolatre le singole tracce.
    VOTO: 7,75
     
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    Buena vista social club - "Buena vista social club"

    Nato per puro caso da un progetto di Wim Wenders, il nome deriva da un club nato negli anni Trenta a Cuba durante la dittatura di Batista. Con la rivoluzione castrista tutto ciò che poteva richiamare a quel periodo viene chiuso, bandito. Musicalmente sarebbe un genocidio culturare. Fortunatamente note, stile e i ricordi non possono essere cancellati dalla memoria degli artisti. E la caduta dell'URSS costringe Cuba, seppur in mezzo a mille contraddizioni e giravolte, ad aprirsi al mondo per richiamare turisti, affamata di valuta pregiata. Così, oltre alle spiaggie, all'architettura coloniale e alle auto d'epoca (e, purtroppo alla prostituzione) la musica cubana, spesso definita caribica .sbonk: diventa una possibile attrazione. Cadono molte restrizioni, suonare la musica del passato non è più un tabù. Così il regista Win Wenders riunisce alcuni dei più grandi musicisti cubani per girare un documentario su quella musica. E ne esce anche un grande disco. Una selezione di alla stars della vecchia guardia si riunisce e come dei ragazzini si divertono, improvvisano, lasciano che i ricordi riaffiorino. A questi si aggiunge l'immenso Ry Cooder.
    Lo stile è un miscuglio di jazz, son cubano (stile tipico della zona di santiago di Cuba, dove ritmi europei si mischiano a quelli africani degli schiavi neri portati sull'isola per lavorare nelle piantagioni), ritmi tribali dai toni sognanti, a tratti trascinanti, a tratti malinconici.
    Non starò a recensire tutte le tracce, basta ascoltare l'opener "Chan Chan", vero manifesto del disco, o "Pueblo Nuevo" o la title track per farsi un'idea del disco e dello stile.
    Vera musica, per un'oretta puoi sognare di essere a Cuba, guardare il tramonto sulla spiaggia sorseggiando un Cuba libre con alle spalle i palazzi fatiscenti vecchi di secoli di Avana, e non essere stordita dall'atroce musica latino americana da classifica o da villaggio turistico.

    VOTO: 9,5 (non do 10 solo perché ho il leggero sospetto che abbiano voluto fare un disco paraculo per tirare su soldi. Ma, fondamentalmente, chissenefrega)

    TrackList:

    "Chan Chan" – 4:16
    "De camino a la vereda" – 5:03
    "El cuarto de Tula" – 7:27
    "Pueblo nuevo" – 6:05
    "Dos gardenias" – 3:02
    "¿Y tú qué has hecho?" – 3:13
    "Veinte años" – 3:29
    "El carretero" – 3:28
    "Candela" – 5:27
    "Amor de loca juventud" – 3:21
    "Orgullecida" – 3:18
    "Murmullo" – 3:50
    "Buena Vista Social Club" – 4:50
    "La bayamesa" – 2:54

    Line Up:

    Juan de Marcos González - percussioni
    Ibrahim Ferrer - voce
    Rubén González - piano
    Compay Segundo - chitarra, voce
    Ry Cooder - chitarra elettrica
    Idania Valdés - voce
    Pío Leyva - voce
    Manuel "Puntillita" Licea - voce
    Orlando "Cachaíto" López - contrabbasso
    Manuel "Guajiro" Mirabal - tromba
    Eliades Ochoa - chitarra, voce
    Omara Portuondo - voce
    Barbarito Torres - laud
    Amadito Valdés - timbales

    Nick Gold - produttore per la World Circuit Records
     
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  6. marcodonà
     
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    il Cuba Libre è quello con la coca cola che fa fare i RUTTONI? feest5

    ecco che Moby fa un bel saltino fotografiamolo op op:
    moby-cover


    Moby, al secolo Richard Melville Hall, pronipote dell’autore di "Moby Dick", fra i romanzi narrativamente più brutti della storia della letteratura, dalla balena bianca sceglie il nome: ma in verità si tratta di un mammifero ben più normale.
    Fa parte di una generazione molto inquadrata, più galleggiante che natante, la stessa dei vari Fatboy Slim: le gioie giovanili di una musica chitarristica crepuscolare, tinta per Melville dei colori accesi (ormai poco) dell’hardcore, l’assenza di uno sviluppo possibile e l’incursione da novizio nell’elettronica. Decine di singoli, e di progetti di diverso nome fra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, nell’attesa di fissare il moniker legandolo al singolo più venduto: fu Go (1991), parassita del tema di "Twin Peaks", allora in gran voga. Ma creare “Moby” non poté portare coerenza né un taglio, un orientamento sicuro: l’incostanza del salto fra Everything is Wrong (1993), primo gradino per il successo, ed il punk-rock glamour di Animal Rights (1996) è leggendaria; meno leggendaria, ma altrettanto evidente, è la banalità di ambo i prodotti e la noia sottesa all’intero progetto.

    Play (1999) era il gradino successivo. Al di là delle storielle sull’inatteso e fulmineo successo, fu un meticoloso lavoro di marketing articolato sullo spazio di tre anni a portare l’album in vetta alle classifiche di mezzo mondo. Il primo singolo era uscito nel 1998, l’ultimo uscirà nel 2001. La novità, forse in quanto tale spinta dall’entourage di Melville, era l’uso consistente di campioni vocali, estratti perlopiù dai repertori-archivi di canzoni popolari di Alan Lomax (ma non solo); la tinta rurale, fra soul e blues, di Honey (una vera e propria cover di Sometimes di Bessie Jones), di Natural Blues (la più riuscita), di Find My Baby, di Why Does My Heart Feel So Bad?, di Run On (la più tradizionale) era una via forse allora entusiasmante. Ma di fronte alla natura sparsa del lavoro nel suo complesso, anche la freschezza del filone era destinata a logorarsi, tanto più per la continua reiterazione del passaggio in radio. Il resto dell’album percorreva strade diverse, spesso del tutto sterili: Machete era una cartolina dal 1993 con linea vocale appena abbozzata, tutta la sequenza terminale inseguiva, con sfumature lievemente diverse, un sogno di ambient music da salotto, in cui è difficile distinguere a memoria Down Slow da Inside da My Weakness (corale, per documentari pomeridiani) da Rushing (più ginnica, per pianoforte distratto). L’alternative rock anni ’90, nella sua declinazione più marcatamente radiofonica, era declinato in South Side (la canzone peggiore), If Things Were Perfect, The Sky is Broken, queste ultime due più vicine alla narrativa che al canto; ma il nadir era toccato nelle acustiche Guitar, Flute and String (selezionata provocatoriamente da un Melville intervistato quale brano migliore del disco) ed Everloving, con confessa qualità di demotape. I restanti singoli, Bodyrock e Porcelain, ebbero successo più per un millenarismo nostalgico: rappresentavano il perfezionamento e la marcitura orchestrale di due generi confinatissimi negli anni ’90, di cui ormai quasi s’ignora il nome il “crossover” (rap con base chitarristica distorta e minimale) ed il “trip hop”. Tutti quanti i brani dell'album saranno usati per film, spot, serie tv.

    Si sarà capito che riascoltare questo disco non mi ha provocato grande nostalgia della mia adolescenza, quando lo comprai pieno di infantile convinzione (e devo avere anche qualche cd-single a Borgo: ah, non poter controllare!); se vi ribaltiamo sopra il dato biografico ben più recente che lo ha visto colonna sonora di una denuncia alla polizia postale per la clonazione della mia carta PostePay, il mio fastidio per questo tasto Play diventa addirittura grottesco. Tanto che devo ad ogni costo compensarlo: la strada, mai proseguita seriamente, del roots elettronico di Run On, di Honey, di Natural Blues, rimane una felice curiosità nella carriera del triste ed insipido Melville, e nel panorama della musica commerciale a cavallo fra il secolo trascorso ed il presente. La sufficienza è guadagnata. Ora speriamo mi rimborsino le Poste.
    6/10
     
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    Non lo ascolto da una vita. All'epoca mi era piaciuto, sopratutto i singoli estratti
     
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  8. Dude
     
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    Marco la tua recensione è splendida e mi ha fatto piegare in più parti anche se mi dispiace per la postepay. ma non sapevo assolutamente che le parti vocali fossero prese dai nastri di Lomax: l'idea è davvero curiosa, anche se la realizzazione lascia in effetti un po' a desiderare.
     
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    era l’uso consistente di campioni vocali, estratti perlopiù dai repertori-archivi di canzoni popolari di Alan Lomax (ma non solo); la tinta rurale, fra soul e blues, di Honey (una vera e propria cover di Sometimes di Bessie Jones), di Natural Blues (la più riuscita), di Find My Baby, di Why Does My Heart Feel So Bad?, di Run On (la più tradizionale) era una via forse allora entusiasmante.

    a me erano proprio queste campionature ad avermi colpito.
    Il successivo ti era piaciuto?
     
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    Marta sui Tubi - Muscoli e Dei

    A mio parere i Marta sui Tubi, gruppo folk-punk siciliano, sono una delle cose più interessanti che siano successe alla musica italiana negli ultimi anni. Nati come un duo acustico, si sono poi ampliati fino a diventare una band da cinque elementi. Ma nel loro primo album i membri sono ancora soltanto Carmelo Pipitone e Giovanni Gulino, due dei migliori musicisti nel panorama musicale italiano attualmente imho. L'opener L'equilibrista mette subito in chiaro le cose: un folk acustico carico di adrenalina, i virtuosismi acustici e le raffinatezze compositive, la meravigliosa voce di Gulino offrono un mix davvero sorprendente. La successiva Vecchi difetti è probabilmente il capolavoro del gruppo, il classico che rappresenta il cavallo di battaglia nei live. Molto belli sono anche i testi, a metà fra la poesia di Vecchi difetti, Post e Le cose cambiano e l'ironia non sense di Volè o Il giorno del mio compleanno (se non sbaglio qualcuno li ha accostati agli Elii in questo aspetto, oltrechè per l'eclettismo musicale).
    Non c'è che dire, davvero un gran bell'esordio.

    Voto: 7,5
     
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  11. marcodonà
     
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    CITAZIONE (Shagrath82 @ 8/11/2013, 18:38) 
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    era l’uso consistente di campioni vocali, estratti perlopiù dai repertori-archivi di canzoni popolari di Alan Lomax (ma non solo); la tinta rurale, fra soul e blues, di Honey (una vera e propria cover di Sometimes di Bessie Jones), di Natural Blues (la più riuscita), di Find My Baby, di Why Does My Heart Feel So Bad?, di Run On (la più tradizionale) era una via forse allora entusiasmante.

    a me erano proprio queste campionature ad avermi colpito.
    Il successivo ti era piaciuto?

    18?
    non mi pare di averlo mai ascoltato, ma i singoli li ricordo e mi lasciano qualche perplessità (specialmente We Are All Made of Stars)
     
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  12. Dude
     
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    B. B. King - Live in Cook County Jail

    C'è poco da dire di B. B. King, figura storica e storicizzata forse al di là dei propri effettivi meriti, diventato universalmente l'icona del blues in virtù anche del fatto che è forse l'unico fra i "pionieri" a non aver bruciato la sua carriera in poche sessions di registrazione. Chitarrista poco propenso al virtuosismo, la chiave del suo successo sono piuttosto il suono immediatamente riconoscibile e il tocco "grasso" e corposo delle sue plettrate. Devo dire che, dal punto di vista strettamente musicale, rappresenta tutto ciò che del blues reputo trascurabile: il suo repertorio fraseologico è talmente ripetitivo da diventare formulaico, i brani difficilmente variano la classica struttura 12-bar, gli arrangiamenti sembrano sempre grossolani e comunque in secondo piano rispetto alle parti di assolo. Questo live del 1970 non fa eccezione: ad esempio la sezione fiati è usata poco e davvero male; nutro inoltre più di una perplessità sull'efficacia degli accompagnatori di King, la band mi pare tutto fuorché stellare e sono tante le imprecisioni nelle parti d'insieme (fra tutte: l'inizio di "Darlin' You Know I Love You" è disastroso, con il pianista che prima sbaglia tonalità e poi rimane una battuta avanti). King è in buona forma, canta splendidamente e sfodera qualche assolo notevole, ma la sensazione di ripetizione dopo 40 minuti di chitarrismi invariati è difficilmente eludibile. Il brano migliore è senz'altro "The Thrill Is Gone", suo successo del momento, un vivace blues minore la cui coda - finalmente - arrangiata presenta cambi di tempo sulla ripetizione ossessiva di un frammento di chitarra, attorno al quale vanno ad addensarsi gli altri strumenti con un notevole effetto dinamico.
    Nel complesso la registrazione è valida, ma fatica ad entusiasmarmi. Uno scontato 6/10.

    Edited by Shagrath82 - 17/11/2013, 17:45
     
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    Brava Giovanna... brava.

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    Litfiba - 17 Re

    Secondo album della cosiddetta "trilogia del potere", "17 Re" esce nel dicembre 1986.
    Al momento dell'uscita la formazione è composta da:
    Piero Pelù - voce
    Ghigo Renzulli - chitarra
    Gianni Maroccolo - basso
    Antonio Aiazzi - tastiere
    Ringo de Palma - batteria

    Devo dire che è un sound leggermente diverso da come me l'aspettavo. Pensavo che il riferimento principale fosse l'hard rock, invece questo è un album che odora di new wave lontano un miglio, pur tendendo l’orecchio anche ad altre tendenze del momento (ad esempio i Pixies, che si sono proprio formati in quell’anno a Boston); i 5 attingono dal movimento post punk e quindi i toni sono piuttosto lugubri, con una sezione ritmica presente e incalzante. Ecco, a proposito, secondo me il vero protagonista dell'album è Maroccolo, le sue linee reggono buona parte dell'impianto complessivo del disco, senza eccedere in particolari virtuosismi.
    Originariamente concepito come un doppio album, 17 Re è incalzante, con dei testi piuttosto ricercati e "compatto" (non vennero pubblicati singoli ad esempio, eccezion fatta per la pubblicazione francese).

    L’apertura, “resta”, è aggressiva, gridata al punto giusto, un buon opening insomma. “re del silenzio” è più introspettiva, accorata, mentre “cafè, mexcal e rosita”, pur dotata di un incedere accattivante, fatica a convincermi, forse per alcune parti del testo o per Pelù, non certo il mio cantante italiano preferito.
    “Vendetta” è introdotta da qualche nota di chitarra acustica, piccola rarità nell’economia complessiva dell’album; è un pezzo “sentito”, trascinante. Ecco, arriviamo al mio brano preferito, “pierrot e la luna”: qui anche Pelù mi convince, gran pezzo. “Tango” è un pezzo orecchiabile, di facile ascolto (anche per questo venne scelto come singolo promozionale per l’edizione francese cui accennavo prima), ma l’attacco del cantato è degno di Ligabue.
    Anche “come un dio” è piuttosto orecchiabile e godibile, e mi ha convinto più della precedente. “Febbre”, invece consiste in un bel crescendo, strumentale e vocale, accompagnato dalla tastiera.
    “Apapaia” ha qualcosa che mi attira (forse l’intro catchy), ma quando parte il ritornello ( eeeeh rispetta le mie idee apapaia apapaia apapaia) vengo colto da orticaria fulminante che non passa finché non cambio canzone.
    “Univers” è caratterizzata dal tono caldo, ipnotico del buon Piero, anche se ci siamo rotti dopo un po’ di “prendi la mia mano e vieni via ti porterò lontano”… il messaggio era chiaro molto prima.
    “Sulla terra” è un bel pezzo, ben arrangiato, bene la batteria, bene il basso, bene la tastiera, bene anche i rintocchi di piano. Poi il verso “bestie in guerra, sulla terra sulla terra” mi è rimasto assai in mente, non so per quale motivo.
    Continuiamo su buoni livelli anche con “ballata”, canzone che da subito mi ha colpito abbastanza, con l’ottimo lavoro del solito Maroccolo. Ah, pure qui c’è un verso che mi rimbomba sempre in testa, “…delle mie ali, ali di cera ecce cc”, non riesco proprio a liberarmi di questi due versi, continuo a canticchiarle.
    Le ultime 4 canzoni cambiano registro: diventano più aggressive, cadenzate, richiamano un po’ la prima traccia –anche se tutte mi entusiasmano meno di “resta”.
    “Gira nel mio cerchio” è fatta abbastanza bene, ma l’arrangiamento suona troppo tamarro alle mie orecchie. Qui a parlare è il mio gusto personale.
    “Cane” e “oro nero” mi hanno detto davvero poco, mentre torniamo su buoni livelli con “ferito”, un brano sferzante, fatto di pause ed esplosioni, di batteria martellante e stasi. Una degna conclusione insomma.

    Di sicuro è un disco che non mi ha lasciato indifferente. Piacevole ma anche ricercato, che guarda alla musica di quasi un decennio prima ma che strizza pure l’occhio a qualche movimento di lì a venire, un album con dei momenti quasi punk che però non prescinde da un approccio più cantautoriale nei testi.
    Non tutto però è all’altezza delle (ambiziose) idee di partenza e questo mi rende un po’ incerto sul voto da dare….
    …alla fine opto per un 6,5 con il dubbio che forse un 7 se lo meritavano.
     
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    Cazzarola, è il loro disco migliore :hihi:
     
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    Ecco, a proposito, secondo me il vero protagonista dell'album è Maroccolo, le sue linee reggono buona parte dell'impianto complessivo del disco, senza eccedere in particolari virtuosismi.

    Bravo :amore:

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    “Cane” e “oro nero” mi hanno detto davvero poco,

    Passi oro nero, ma CANE!!!! è bellissima!
     
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