Go review that album: IV turno

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    Timoria - Viaggio senza Vento

    2005%2f4448

    E così nel 1993 i Timoria giunsero al loro quinto album (mica male per una band nata nel 1986), dopo una comparsata a Sanremo (dove vennero eliminati subito dal televoto ma acclamati dalla critica) e vari album interessanti, ma che non ebbero un grande riscontro di vendite. Beh, i Timoria (quelli con Renga e Omar Pedrini) s'inventarono un comcept album. Vent'anni dopo l'epoca d'oro dei concept, ovvero gli anni Settanta. E lo fanno da Dio (anzi, dovrei dire, Pedrini lo fa da Dio, visto che il 90% del disco è opera sua). Il concept è basato sulle avventure di un certo Joe (leggo su internet che sarebbe l'alter ego di Pedrini stesso), della sua fuga/viaggio, dopo aver ucciso il guardiano della prigione-canile, alla ricerca di se stesso, della liberta’ o della verita’ per dimostrare qualche cosa chissà…
    E’ un disco intriso di letteratura, filosofia e spiritualità.
    Attraversa quei problemi con i quali ci siamo confrontati negli anni 90: il rifugio nella droga, la fuga verso la ricerca della spiritualità, verso un’utopica Città del sole, nella continua contrapposizione di valori, oscillando tra il bene e il male (Come serpenti in amore) fino allo sbandamento della cosidetta generazione X.
    Il percorso tematico si rispecchia nella musica, il disco spazia da un rock energico ad atmosfere sognanti e sospese, che rappresentano il bisogno di altro rispetto alla realtà vissuta, si passa attraverso ballate malinconiche, a pezzi che appagano la necessità di una silenziosa intimità.
    Un gran bel disco, omogeneo, bel registrato, ben arrangiato, dove canzoni energiche (come l'opener Senza Vento, il loro inno, ma anche Il mercante dei sogni, Due serpenti in amore, Il guardiano, La fuga) coesistono con ballate stupende come la struggente Sangue impazzito (capolavoro), oppure La città di Eva, e non mancano ospiti importanti come Finardi/Cabezas nella sognante "Verso Oriente" dove duettano con Pedrini o il violinista Pagani che suona nella rustica Lombardia, omaggio alle radici provinciali della band.
    Non mancano i coretti alla Timoria (menzione speciale per Freedom, cantata quasi tutta a cappella), ma senza le esagerazioni dei dischi precedenti.
    Quindi, album stupendo, che commuove ed esalta, che mostra una band perfetta, magari tecnicamente non superlativa, ma piena di energia, di idee, di entusiasmo.
    E poi, che ci frega della tecnica, quando un Pedrini così scriveva dei testi perfetti e uno con una voce come Renga li cantava? Nulla, appunto.
    VOTO: 10

    P.S. Vorrei spezzare una lancia in favore delle aziende discografiche dell'epoca, visto che un gruppo underground come i Timoria ebbero l'opportunità di registrare vari dischi, cantare una canzone di Ligabue, chiamare ospiti importanti nel loro quinto disco. Ora credo che tutto questo non sarebbe possibile

    Edited by Shagrath82 - 1/3/2014, 19:54
     
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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    Bene, felice che si sia piaciuto :sisi:
    Oltre a questo disco veramente belli hanno fatto solo 2020 Speedball, e El Topo Grandhotel, senza Renga
     
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  3. marcodonà
     
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    Prima recensione del 2014, un poco ottusa dalla lasagna, dallo zampone, dalla pizza rustica, dai salumi.

    Christian Death
    Only Theatre of Pain
    1982

    OTOP+original

    Conoscevo la vicenda Christian Death, Williams-Kand, il gruppo sdoppiato, i tribunali sullo sfondo, le fazioni, e l’ho sempre vissuta attraverso la voce di un purista –carissimo amico dei tempi delle scuole medie e primi anni di scuole superiore- che tuttavia quasi di nascosto ascoltava Born Again Anti-Christian, uscito da non molto. Io in verità ero poco appassionato dalla diatriba, anche perché i dischi anni ’90 della ripresa di Williams non mi sono mai piaciuti e l’idea che mi ero fatto del personaggio non era lusinghiera al punto da vedervi un vero antagonista del truccato Kand; su ambo le incarnazioni aleggiava ormai da tempo un’aria assai deprimente da veglione scolastico di Halloween. Oggi, riascoltando grazie a Caterina Only Theatre of Pain, che già allora incontrava il mio gusto molto di più, ho capito che quel veglione era forse inevitabile: era una delle possibili strade da prendere per un gruppo darkwave nato e sbucato in ritardo, vissuto nei tempi suoi migliori degli stilemi ormai definiti e definitivi di un codice arcigno e già vicino all’oblio.

    Only Theatre of Pain - “theatre” all’inglese, nonostante la culla di Los Angeles - tardo appunto, uscito nel 1982, non era la fondazione di un “nuovo genere”, come vollero congiunte una parte della critica e del mercato, come viene ripetuto oggi anche da voci solitamente più disincantate: era piuttosto un fiore liminare, un grido crepuscolare, l’impeccabile sunto di una stagione britannica a suo modo eroica, ma ormai lontana dalla radio. Le influenze tante e tali che fa paura tentare di enumerarle: sicuramente Joy Division, Cure, Bauhaus, forse anche i The Fall; la natura manierista dell’operazione ben si sposava con contenuti lirici pericolosamente ai limiti dell’autoparodia nel continuo riferimento a satanismo, necrofilia, e tutto il più vario repertorio da Grand Guignol, in salsa fieramente antimoralistica ed anticlericale. Le bestemmie di Williams erano però parte integrante di un disegno sonoro insospettabilmente lucido, che tentava di emarginare la fortissima vocazione melodica del gruppo agli intrecci fra basso e chitarra: la strategia è perlopiù vincente e scatena brani di impatto e freschezza poderosi, come Romeo’s Distress (con grande ritornello finale percorso dal lugubre –o vorrebbe esserlo!– campanaccio), Cavity/First Communion, forse insieme il loro capolavoro di occultamento e la loro canzonina più ariosa, Spiritual Cramp. Al di là, al di sotto dei vertici, il gruppo si mantiene solido sfruttando e portando alla tenuta massima loci communes arabescati (Stairs/Uncertain Journey, Figurative Theatre) o sparpagliando le tessere con fortunato e visionario nichilismo, come in Burnt Offerings, uno dei loro brani più classici, costruito su un’idea minuscola ed annegata negli effetti di chitarra. Anche la marziale e terremotata, Mysterium Iniquitatis, nel nucleo una ballad, si salva dalla monotonia dei suoi ghirigori grazie alla breve durata ed inattesa chiusura. Dove, davvero, i Christian Death scivolano, è nello strumentale atmosferico: Prayer, posta in coda a tutto il lavoro, lascia una sensazione di amaro, di spiacevole naivismo, preannuncia le venture ragnatele finte, gli spray puzzolenti, il make-up da satanello contrito, i palloncini che metti sulla sedia e ti fan sembrare scoreggione.

    8/10
     
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    CITAZIONE
    preannuncia le venture ragnatele finte, gli spray puzzolenti, il make-up da satanello contrito, i palloncini che metti sulla sedia e ti fan sembrare scoreggione.

    :ride3:
     
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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    "Born Under A Bad Sign" di Albert King

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    Pubblicato nel 1967, fu il secondo album della carriera di Albert King, uno dei tre Re del blues chitarristico (gli altri sono B.B. King e Freddie King).
    Disco assolutamente innovativo, seppe rivoluzionare il blues tradizionale, ponendo al centro la chitarra suonata dal nostro Albert, in una maniera tale da influenzare vere e proprie legioni di chitarristi e bluesman (tra tutti lo stesso Hendrix) rinnovando un genere glorioso che si trovava in difficoltà stretto dallo strapotere del rock 'n roll prima e dall'exploit dei Beatles.
    Ebbene, questo disco contiene delle gemme incredibili. A partire dalla title track fino alla trascinante The Hunter, leJjzzate I Almost Lost My Mind e Kansas City, dove blues e swing s'incontrano a meraviglia. Puro blues è la perfetta Oh, Pretty Woman.
    Volendo tirare le somme, Born Under a Bad Sign non è solo un salutare concentrato di blues, ma è ritenuto, a ragione, un degli album che più ha influenzato la musica blues e non solo negli anni ’60, nonostante i pezzi scritti da King siano una minoranza rispetto alle cover. Infatti inizialmente l’album nacque come raccolta di singoli e cover, ma poi Albert King e la Stax Records decisero di aggiungere altre tracce appositamente preparate per l’album. Tuttavia, non si può trascurare il “chitarrismo” di King in questo album, uno stile che ha influenzato la maggior parte dei chitarristi successivamente affacciatisi al blues e al rock. Basti pensare l’importanza di questo artista per musicisti anche così diversi tra loro come Clapton e Gary Moore.
    Ancora una menzione merita la copertina, dove trovano posto tutti i simboli di sfortuna, sopratutto quelli americani (gatti neri, venerdì 13, doppio uno coi dadi, eccetera).

    VOTO: 9

    Edited by Shagrath82 - 1/3/2014, 19:55
     
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    Dunque, io ho avuto (come temevo) seri problemi di identificazione del disco proposto da Bottiglia: mi hai dato come titolo The New Tristano (1962) che è un disco in solo piano, ma poi mi hai linkato su youtube il disco Lennie Tristano (1956) che è invece registrato con due formazioni diverse (un trio e un quartetto). Io ho privilegiato l'informazione più diretta (il link) e ho ascoltato quest'ultimo, che è anche quello che conoscevo meglio dei due :hihi:

    220px-Lennie_Tristano_%28album%29

    Questo è forse il disco più controverso e famoso della - breve - carriera in studio di registrazione di Tristano. Ma chi era Lennie Tristano? Facciamo una piccola panoramica per i tanti utenti del forum che presumo non lo conoscano. In effetti il nome di Tristano è fra i più misteriosi nella rosa dei "giganti" del jazz, talvolta sminuito persino da chi il jazz lo ascolta e lo pratica quotidianamente. Pianista italoamericano cieco dall'età di 9 anni, personaggio schivo, poco avvezzo a comparire in pubblico, ha registrato una buona parte dei suoi capolavori da solo, in casa, nel suo studio. Il suo carattere riservato e la sua concezione rivoluzionaria dell'armonia (di cui è stato un conoscitore enciclopedico) lo hanno portato a prediligere l'attività didattica a quella concertistica: tutt'ora viene considerato uno dei maggiori talent-scout della sua epoca, avendo raccolto intorno a sé e formato musicisti come Lee Konitz, Warne Marsch, Charles Mingus, Phil Woods etc.
    Questo self-titled del 1956 è passato alla storia per contenere i primi esempi nel mondo del jazz di manipolazione dei nastri. Due le tecniche utilizzate: in Line Up e East Thirty-Second il pianista fece registrare alla sua sezione ritmica le basi armoniche di due standard (Line Up è un mascheramento di All Of Me, mentre il secondo brano rielabora gli accordi di Out Of Nowhere) eseguiti a tempo rapido, poi riprodusse il nastro a velocità dimezzata, sovraincidendovi un'improvvisazione per la sola mano destra del pianoforte. Infine riportò il nastro alla velocità di partenza: il risultato è che il pianoforte suona metallico, freddo, innaturale, oltre a possedere una rapidità di articolazione fraseologica fuori dal comune per qualsiasi musicista. Si tratta di un'operazione dalla duplice lettura: da un lato amplia le possibilità timbriche di uno strumento tradizionale, facendolo suonare quasi robotico; dall'altro mette in crisi la concezione del solismo nel jazz come promanazione della propria fisicità, sfondando di fatto il limite "umano" insito in ogni esecuzione in presa diretta, spezzando il legame fra esecutore e strumento. In Requiem (uno dei suoi vertici di lirismo) e in Turkish Mambo invece Tristano sovraincide più tracce di pianoforte diverse, anche qui facendo storcere il naso ai puristi che percepiscono dei limiti fisici nella realizzazione di questi brani. In particolare Turkish Mambo è uno degli esperimenti più radicali tentati in quegli anni: si tratta della sovrapposizione di tre ostinati ritmici, uno in 7/8, uno in 6/8 e uno in 5/8, che creano una ciclicità ipnotica, dalla poliritmicità insuperabile, sopra alla quale Tristano incide un'ulteriore traccia, un'improvvisazione blues in 4/4 sulla pentatonica minore. Il risultato, contrariamente alla concezione, è tutt'altro che cervellotico, addirittura struggente a tratti.
    La parte innovativa del disco finisce qui; la seconda facciata è completata da cinque standard piuttosto famosi suonati live nel 1955 dal quartetto di Tristano: a spiccare, oltre al leader, è un brillante Lee Konitz, che esprime compiutamente la concezione tristaniana del fraseggio, con ampie volte melodiche a valicare le barriere strutturali del chorus. Le esecuzioni sono impeccabili, ma meno rilevanti delle esplorazioni in studio.
    8,5/10
     
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    Madre, donna, lesbica. What else?

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    "Povero Sboro" dei Mad Creudo

    Ci ho messo un casino di tempo, molti ascolti, molte perplessità. Oltre un mese a pensarci sù.
    Perplessità che restano dopo aver ascoltato decine di volte questo disco. Sul web leggo solo commenti entusiasti, ma si sa che in rete spesso c'è un sottobosco di ipster e snob dove tutto ciò che non mainstream o è di nicchia piace a priore. Io ho le orecchie allenate ad ascoltare suoni fuori dal normale, il pop non è certo nelle mie corde. Eppure non riesco a togliermi l'dea che il disco sia un'accozzaglia di suoni e "musiche" senza alcun senso. Non vorrei offendere nessuno, ma in certi brani non trovo nulla di musicale. Noise allo stato puro, come "Giovanni Paolo secondo me è coprofago". Intermezzi brevi dove si sente lo sciacquone del cesso, che non capisco se si tratta di momenti goliardici o vogliono essere sperimentazione artistica :hihi:
    A tratti ci sono intermezzi interessanti, che si rifanno al rock psichedelico degli anni Settanta o all'acid blues sempre di quel periodo, ma anche alcuni intermezzi prog sono apprezzabili.
    Riconosco loro il coraggio, perché ci vuole coraggio nella sperimentazione, oltre che nello scegliere certi titoli (La lebbrosa bocchinara, Perché Paola non apre la FICA direi che sono due esempi eloquenti) e, come si dice dalle mie parti, una bella faccia di tolla per proporre certi brani, restando seri e magari prendendo per il culo fior di critici.
    Non so se nel duo ci suona o milita qualcuno del bazar, ma preferisco essere sincera piuttosto che lecchina.
    Direi che il mio voto è N.G. non posso giudicarlo se non negativamente, e per giudicarlo dovrei magari avere strumenti e capacità che io riconosco di non possedere.
    Sorry

    VOTO: N.G.

    Edited by C@te - 8/4/2014, 15:18
     
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    Brava Giovanna... brava.

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    Anais Mitchell - Hadestown

    Anais Mitchell nasce nel 1981 nel Vermont, piccolo stato del nord-est con fattorie, boschi, qualche moonlight e poco altro. Mi sono sempre immaginato quella zona degli USA come un posto nel quale c’è un alto rischio di diventare un fanatico di qualche congrega protestante o un personaggio tipo GG Allin. Ah, si, puoi anche fare musica folk e viaggiare un po’ per il mondo, ed è il caso di Anais.

    Inizia a scrivere canzoni nei primi anni 2000, appena ventenne. Nel 2010 è la volta di “Hadestown” , terzo album per l’etichetta “righteous babe records” nonché concept che propone una rivisitazione -moderna- del mito greco di Orfeo ed Euridice: la storia è famosa, romantica e struggente al tempo stesso, con il protagonista che scende nell’Ade per ritrovare l’amata uccisa dal morso di un serpente mentre cercava di fuggire da Aristeo (che si era invaghito di lei). Dopo mille peripezie, affiancato dall’inseparabile lira, Orfeo ottiene da Persefone il permesso di riportare Euridice sulla terra, a una condizione: non si sarebbe mai dovuto voltare verso di lei, finché non fossero usciti dall’Ade. Orfeo non resiste e, a pochi metri dalla porta dell’Ade si volta verso Euridice, vedendola scomparire nelle tenebre infernali.

    “Hadestown” nasce come un musical teatrale. Anais scrive tutti i testi e le musiche, e recluta vari collaboratori dalla scena folk-rock americana. Ciascuno interpreta un personaggio ben definito: Anais è Euridice, mentre la parte di Orfeo spetta a Justin Vernon (leader dei Bon Iver); Greg Brown interpreta Ade, col suo vocione cavernoso (ottima presentazione in “hey little songbird”), mentre Ani di Franco è Persefone; da ultimo abbiamo Ben Knox Miller nella parte di Hermes e qualche fanciulla a fare i cori.
    L’album è composto da 20 tracce, alcune delle quali sono intermezzi che collegano le varie canzioni-situazioni su cui i musicisti preparano la scena. La durata media non è elevata e tutti i pezzi sono piacevoli, arrangiati in maniera certosina. E’ orecchiabile e non annoia quasi mai, anche grazie alle varie voci che si alternano, variando il tutto. Varia è anche la strumentazione: chitarra acustica, pianoforte, ottoni, viola e violoncello, vibrafono, fisarmonica e chi più ne ha più ne metta! (cit.)
    “way down hadestown” e “our lady of the underground” sono i pezzi che mi hanno convinto di più, molto “waitsiani” (in particolare per l’incedere e –per quanto riguarda la seconda- lo stile talking blues). Bene anche “when the chips are down”, con cori, ritmo sostenuto e breve parentesi di piano. Altri cori, quasi da stadio, si hanno in “Why we build the wall”, scanditi dalla voce di Greg Brown.
    Momenti romantico-sentimentali -ma non per questo brutti- si trovano invece in pezzi come “epic”, “wait for me”, “flowers” (molto delicata, con voce della sola anais e archi di sottofondo), “if it’s true”.

    Obiettivamente non c’è una canzone mal eseguita: l’album da questo punto di vista è un gioiello. Se proprio gli devo trovare un difetto è che pecca un po’ di “tradizionalismo”. A volte mi sembra di ascoltare un lavoro fatto per la parrocchia del paese. Curatissimo, fatto da dio, però sempre per la parrocchia del paese, vero centro culturale delle città del Vermont. Non so, forse in qualche episodio potevano osare un po’ di più.
    Mi piacerebbe vederlo “in scena”, con i musicisti nelle varie parti e una degna scenografia. Sono sicuro che farebbe un altro effetto rispetto all’album, che comunque rimane piacevolissimo.

    7,5
     
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    The Supermen Lovers - The Player

    “Jazz/funk Herbie Hancock-sounding harmonies meeting vintage synth basses. The beating, human, pumping heart of a discofunk sample being amplified by an electronic bypass.” In questo modo i The Supermen Lovers, in realtà uno one-man project, si definiscono sulla loro pagina Facebook. Si tratta quindi di un progetto tipico della scena “french touch”, affollata da tanti fratelli minori e figli dei Daft Punk. House/disco, con fortissime venature funk, e un corposo uso di elettronica. Rispetto ai re di questo genere, i Daft Punk appunto, The Player (uscito nel 2002) è un album che cerca sonorità e beats molto più vintage (o almeno rispetto ai Daft Punk dei primi ’00, visto che il recente Random Access Memories è tutta un’altra storia). Pur essendo questo un genere di musica che ascolto da relativamente poco (e che solo qualche anno fa avrei schifato come la peste :hihi: ), mi azzarderei a dire che siamo di fronte ad un lavoro non fondamentale e non troppo originale. Ciò non toglie però che l’album sia decisamente gradevole, i groove sono sempre piuttosto trascinanti. In generale direi che scorre piuttosto velocemente, ma è leggermente appesantito da una lunghezza forse eccessiva (c’è un brano da 10 minuti, e non so quanto ce lo si possa permettere facendo questo tipo di musica). Alcuni brani (Material World e White Hands su tutti) mi sembrano in ogni caso davvero notevoli.
    Voto: 6,5

    Edited by Shagrath82 - 1/3/2014, 19:55
     
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  10. Bottigliå
     
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    Amassed di Spring Heel Jack


    Mi trovo davanti a difficoltà prima di tutto linguistiche nel parlare di questo disco, visto che servirebbe una dote linguistica pari alla complessità dell'ascolto per parlarne chiaramente.
    Comunque sia, per prima cosa ho dovuto documentarmi su chi fossero gli Spring Heel Jack, dato che non ne avevo mai avuto voce prima d'ora; scopro che sono un duo di polistrumentisti di musica elettronica, tra i "fondatori" della d'n'b. Amassed è il loro nono disco e arriva dopo Masses dal quale sono cominciate le contaminazioni con il free jazz.
    Decisamente incuriosito ho cominciato l'ascolto e sono rimasto tramortito da ciò che usciva dalle cuffie, tramortito non tanto per l'onda sonora, più per la novità di ciò che udivo.
    Ancora una volta non mi trovo in grado di descrivere tecnicamente la qualità del disco, sia per mia mancanza di conoscenze, ma sopratutto perchè forse in questo caso sarebbe superfluo.
    Ammeddo di essere stato parecchio influenzato dalla lettura di una recensione trovata su debaser, ma nella quale mi sono ritrovato alla perfezione.
    La sensazione che si ha è quella di una ricerca sonora, che punta alla destrutturazione alla disgregazione dei suoni; questi non seguono un'apparente linea armonica ne ritmica, quando ci sembra di averla trovata scopriamo di essere stati presi in giro, che erano solo coincidenze.
    Una musica elettronica, noise condita con il jazz e suonata in spazi industriali enormi e privi di vita.
    Il quadro che ci troviamo davanti è decisamente futurista (non nel senso pittorico) ma nel senso che ci descrive quello che è un possibile mondo futuro, e per nulla allettante direi, un futuro in cui oramai l'emozione è spenta in favore del dio macchina.
    Ogni canzone racconta una storia di alienazione, disgregazione, nostalgia e paranoia, ma al contempo di un nulla cosmico, perchè sembra che in realtà non sia rimasto nulla da provare, nessuna emozione e tutti i suoni che si sentono sono la ricerca di un qualcosa nella tabula rasa meccanizzata (semicit.) che è il mondo immaginato e costruito dagli spring heel jack.
    Già dall'inizio, con Double Cross, il discorso quasi si esplicita quando, tutto l'impianto sonoro al quale ci stiamo abituando inizia a scivolarci via in una fuga sempre più repentina, ci si abitua a non avere punti di riferimento, non esistono nel mondo in cui siamo stati catapultati.
    Nell'ascolto mi sono fatto guidare molto dai titoli dei brani per trovare un appiglio in questo caos, con amassed l'idea (o meglio il viaggio) che mi ha suggerito è proprio quella dell'accumulo, un agglomerato di suoni che cresce sempre più fino ad arrivare ad un'inevitabile conflagrazione che lascia dopo di se un nulla in cui come dei frammenti emergono i resti di ciò che è stato.
    Qui salta fuori la nostalgia, che ritorna anche in 100 years before dove ho l'impressione (anche qui favorita dal titolo) di trovarmi come in un museo in cui trasmissioni disturbate ci mostrano quel che resta dei giorni nostri.
    Tre tracce mi hanno colpito maggiormente, la prima è Lit
    per la sua delicatezza, con un rumore simile ad una puntina che gratta si innesta una vera e propria ninna nanna, con momenti dove il sax ci illude che ci sia ancora una luce, un buono in questo mondo, per poi finire quando la melodia si interrompe e il solo rumore meccanico diventa quello di una pressa, una macchina demolitrice che comprime, schiaccia, spegne.
    Duel mette in scena una vera e propria lotta, veramente grande la suggestione che mi ha creato.
    Infine Obscured è il sunto dell'inferno industriale creato fino ad ora, e l'ascolto è come un viaggio dantesco scandito da un impetuoso battito di mani.
    Cito direttamente dalla recensione di cui parlavo prima perchè descrive troppo bene le conclusioni:
    Questo disco è per gente di 10000 anni dopo, è l'elogio dell'autismo, dell'ebetismo emotivo, è per tutti quelli che non si turbano per i 100 morti al giorno di Baghdad perché se ancora sanguiniamo è solo questione di tempo.


    Forse mi son trovato a fare la descrizione più di un'esposizione d'arte che di un disco, ma mi è stato difficile scindere l'ascoltato dall'immaginato.
    E sopratutto l'effetto è che ho scritto come un idiota :hihi: (stile critico pomposo e supponente)
    Comunque, mi ha fatto un'impressione davvero molto forte, ha una forza evocativa immensa e più di così non oso spingermi.
    io come voto gli do 8,5

    CITAZIONE
    Dunque, io ho avuto (come temevo) seri problemi di identificazione del disco proposto da Bottiglia

    io continuo ad averli tutt'ora dato che sto cercando di procurarmelo in buona qualità, ma ho trovato diverse fonti che indicano stesse tracce ma in anni diversi con titoli diversi, ma che in parte suonano identiche :gratt:

    CITAZIONE
    La parte innovativa del disco finisce qui;

    La prima parte con le sovraincisioni è proprio quella che mi ha fatto impazzire per questo disco, oltre al fatto che in genere subisco il fascino del musicista quando ascolto questo genere, e Tristano mi affascina un mondo (sopratutto dopo aver sentito come suonava in un live con solo Lee Konitz)
     
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  11. Dude
     
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    wow sono contento che ti abbia stimolato! è in effetti un disco fertilissimo, anche se a me non trasmette tutta questa sensazione di freddezza e di meccanicismo. mi sembra soprattutto un meraviglioso studio di textures sonore, un pasticcio "elettroacustico" guidato da due personaggi con un background culturale completamente diverso da quello dei musicisti che coordinano. la qualità musicale è elevatissima perché è determinata, nelle micro-scelte, da un cast che raccoglie i migliori musicisti free-jazz del mondo, ma a differenza di molti dischi free qui ogni brano è un episodio con un senso narrativo ben preciso, anzi direi quasi che ogni brano è proprio un aneddoto. questa è la forza centripeta di Coxon e Wales, nonché ciò che dà una direzione, un "obiettivo" a questi meravigliosi paesaggi sonori. in questo senso il brano più impressionante rimane, per me, la title-track: con quella esplosione terrificante che arriva, come dici bene tu, al termine di un'accumulazione via via sempre più frenetica e che metterebbe in imbarazzo molte rock-band pseudocasiniste o convinte di far delle gran dinamiche soft/loud.

    ti faccio solo un appunto: in Lit la "guida" non è del sax, ma della meravigliosa tromba di Kenny Wheeler.
     
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  12. Bottigliå
     
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    Ammetto ancora una volta che sono stato molto condizionato da una recensione letta sulle impressioni avute, comunque non intendo tanto una freddezza classica vista come mancanza di comunicazione, che anzi, a tratti è straripante, ma è come se quella comunicazione mi arrivi da un "non umano"; magari è un controsenso eh :hihi:
     
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    Esagerato, stai tranquillo e pensigh no

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    Ministri - Tempi bui (2009)

    tempi-bui-cover

    Qualcuno ha definito i Ministri come dei profeti, in quanto questo album del 2009 parla già di "soldi finiti" e di declino della società. In realtà i testi mettono a nudo vari aspetti della società che non funzionavano prima e a maggior ragione non lo fanno oggi: ad esempio, in Bevo ce l'anno con il fatto che la pubblicità ti spinge a consumare alcohol e poi ti dice "ma con moderazione".
    Una nota speciale per La faccia di Briatore, canzone molto simpatica e orecchiabile nonostante la tematica abbastanza seria. Una delle poche che si salva tra un insieme di canzoni lagnose, seppure debba riconoscere che i testi di per sé sono scritti anche bene, in modo particolare quello di Berlino 3. Musicalmente la canzone che mi ha colpito di più è sicuramente Vicenza, decisamente gagliarda.
    Forse la critica l'ha giudicato un capolavoro, ma a me sembra di sentire un album dei Modà in versione pessimista (le sonorità e il cantato di alcune canzoni me li ricordano maledettamente). E' bellino, ma se questo è il nuovo rock italiano siamo messi maluccio.

    Voto: 6

    P.S. sbaglio o Ballata del lavoro interinale è uno spudorato plagio di Ordinary Life dei Liquido?

    P.P.S. fanno parte della KASTAAAAAAAA!!!!!1!!!!11!!!1!!1!!111

    Edited by Shagrath82 - 1/3/2014, 19:56
     
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    In realtà "I Soldi Sono Finiti" è il loro primo album (2007), ma vabbè :hihi:

    Chi altro manca?
     
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  15. Èttore
     
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    van-morrison-astral-weeks

    Quello che appare subito chiaro è che Astral Weeks non è un disco usuale.
    Anche senza conoscere i dettagli del travaglio che fu la sala di registrazione, appare chiaro che voce e chitarra viaggiano su una strada dritta, che appartiene solo a loro, mentre tutto l'accompagnamento segue, con coraggio e impegno, ricamando sulla traccia.
    Questa risulta quasi sempre povera, scarna. Qualcuno la definisce spirituale. Altri calda ed emotiva. Qualcuno preferisce chiamarla autistica. Senz'altro quasi tutti i pezzi del disco risultano ossessivi, a tratti frustranti nel loro tornare costantemente indietro, avvolgersi intorno a se stessi, senza sviluppare una via. La voce di Van Morrison segue sempre uno stesso pattern, battendo sulla tonica come se non ci fosse un domani, come se ci fossimo dimenticati la tonalità del brano, per poi aprirsi in viaggi spericolati e disperati che tornano sempre al punto di partenza.
    L'accompagnamento è il contrario assoluto, la vera gemma del disco. Mai uguale a se stesso, sempre a proposito, detta la ragion d'essere di ogni pezzo, gli regala un carattere proprio e un'identità, guidandolo poi in un discorso, che si concretizza nel confronto con la staticità dell'artista di copertina, come il viaggio della punta di un compasso ha bisogno del perno.
    Non mi sento di fare un track by track, mi sento però di citare l'unica traccia che evidentemente non può che venire da un disco diverso, tanto poco c'entra: The Way Young Lovers Do. Qui è come se Van Morrison si lasciasse finalmente schiodare dagli altri musicisti, impegnati in un serrato tourbillon, finendo trascinato in un pezzo magari più convenzionale, ma sicuramente molto riuscito e coinvolgente. Non a caso, a mio parere, l'highlight del disco.
    Bocciare Astral Weeks? A livello personale, trovo le sue caratteristiche particolarmente irritanti. Ma la musica espressa dalla band che va appresso al ragazzino (che, dimenticavo, canta liriche davvero da ragazzino) è un vero godimento. E questo è ancora più frustrante. È però un disco molto molto influente. Che importa la mia frustrazione al cospetto del giudizio della storia? Peraltro ciò che apprezzo nel disco giustifica più che ampiamente un bel 7, che in ogni caso qualcuno già considerererà un mezzo insulto.

    Cheers,
    Ettore
     
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14 replies since 28/12/2013, 15:47   96 views
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