Fino alla fine del mondo

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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    Fino alla fine del mondo

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    Viaggio sulle tracce della nave "Genova", che nel 1948 sbarcò a Ushuaia con centinaia di lavoratori italiani.

    Nel 1948 una nave chiamata “Genova” salpò dal porto dell’omonima città per portare nell’estremo sud della Patagonia centinaia di lavoratori italiani. L’anno dopo ne arrivarono altri, assieme alle famiglie, per un totale di duemila persone. Trenta giorni di navigazione per attraversare l’oceano e arrivare nella città che in Argentina chiamano “El Fin del Mundo”: Ushuaia. Oggi questa cittadina è una graziosa località turistica dove si praticano sport invernali, si seguono percorsi di trekking o ci si imbarca per visitare le estreme propaggini del continente americano: Capo Horn, l’Isola degli Stati, il canale di Beagle dove si visitano le colonie di pinguini, lo stretto di Magellano. Ma nel 1948 le cose erano piuttosto diverse. L’anno prima il governo argentino aveva chiuso la colonia penale che era stata attiva dall’inizio del secolo, l’unica ragione per cui degli uomini risiedevano – in buona parte contro la loro volontà – in questa remota parte di mondo. Secondini, prigionieri, militari e addetti alla manutenzione erano le persone presenti nell’insediamento. Quando chiuse il carcere erano rimasti in meno di mille e ottocento. Gli italiani che arrivarono erano più degli abitanti di Ushuaia dell’epoca. Sostanzialmente la ripopolarono. E il motivo per cui il governo argentino aveva favorito questo esodo è che aveva intenzione di riconvertire la zona, trasformandola in un centro industriale, per far sì che non fosse abbandonata.

    Mi imbatto in questa storia di emigrazione, poco conosciuta in Italia e ancora meno raccontata, mentre prendo informazioni per un viaggio in Patagonia. Ovviamente la prima cosa che mi viene in mente è quella di andare a vedere che cosa resta di quella colonia di lavoratori. Il fascino che esercita un luogo come Ushuaia, guardandola su una cartina prima ancora di andarci, nasce da una domanda ingenua, probabilmente la stessa che dovette farsi Jules Verne quando decise di ambientare da queste parti un suo noto romanzo uscito postumo, Il faro in capo al mondo, ispirato al faro di San Juan de Salvamento, il più antico dell’Argentina e il primo a essere costruito in acque australi, che si trova sull’Isola degli Stati. Ovvero: che ci fa la gente in un pezzo di mondo così remoto? Di cosa vive e di cosa si occupa? Ovviamente dietro a una domanda simile c’è una dosa di romanticismo che se per Verne era giustificata, per chi vive nel XXI secolo è decisamente fuori tempo massimo. Oggi per arrivare a Ushuaia bastano tre ore e venti minuti di aereo partendo dall’Aeroparque di Buenos Aires. Mentre il faro di San Juan, meglio noto come “Il faro della Fine del Mondo”, è oggi una delle principali attrattive turistiche dell’aera e un monumento nazionale.

    In Patagonia, verso sud
    Per ovviare all’aridità della nostra epoca iperconnessa e globalizzata decido di farmi parte del viaggio in autobus. Parto da El Chaltén, paradiso degli escursionisti di tutto il mondo, dove ogni attività del piccolo paese ruota attorno alla presenza dei turisti. In circa tre ore di viaggio, con lo sfondo della cordigliera delle Ande, si raggiunge El Calafate, cittadina da dove si parte per raggiungere il Perito Moreno, il famoso ghiacciaio della Patagonia. El Calafate è in pratica l’hub turistico della provincia di Santa Cruz: ha un suo aeroporto con un afflusso costante di gente e il centro cittadino è funestato dalla tipica atmosfera di plastica delle località che hanno troppo successo. L’estetica “ranchera”, con predominanza di tronchi di legno in bella vista nelle strutture dei negozi, fa pensare a una versione sudamericana del Great Northern Hotel di Twin Peaks. Non so se David Lynch si sentirebbe a casa, da queste parti, ma io sicuramente no. Ci vogliono altre quattro ore per arrivare a Rio Gallegos, la capitale provinciale, e stavolta il panorama è incredibilmente piatto. Anche se la Pampa è parecchi chilometri più a nord, le pianure argentine proseguono senza sosta quasi fino alla fine del continente. Tutto è immerso in due lunghe e infinite strisce di colore: il giallo del terreno coltivato e il blu del cielo.

    A Rio Gallegos sono costretto a fermarmi per la notte, perché i bus per la Terra del Fuoco partono solo di mattina. Trovo un albergo spartano e dagli arredamenti cadenti, ma pulito. Ho il tempo per un giro della città, che tutti a Buenos Aires mi hanno dipinto come “bruttissima” e anonima. La descrizione per certi sensi è vera, perché tutto a Rio Gallegos ruota attorno alle amministrazioni pubbliche e all’insediamento militare della marina. Sembra una città delle zone rurali degli Stati Uniti: casette di legno e lamiera, palazzi anonimi, un casinò, centri commerciali. Gli edifici raramente hanno più di un piano. Eppure i tratti sgraziati di questa cittadina me la rendono immediatamente simpatica: a differenza dei luoghi che mi sono lasciato alle spalle, si avverte con nettezza che qui c’è una vita propria della città. Una vita di provincia, chiaramente. Mi imbatto nel teatro comunale che è chiuso: dalla vetrina si intuiscono segni di abbandono. Poco più avanti però c’è una libreria di qualità. Nel centro città ragazzini con i capelli vagamente punk e le felpe dei loro gruppi preferiti affollano il parco San Martin, proprio di fronte alla piccola chiesa di Nostra Signora di Lujan, costruita dai Salesiani e inaugurata nel 1900: uno degli edifici più antichi della città. La testa bronzea di Don Bosco che fa capolino dal giardino della chiesa mi ricorda di colpo che le missioni salesiane sono partite proprio dalla Patagonia, nel 1875. Cerco di ricordare i racconti che periodicamente le suore dell’istituto salesiano dove andavo a scuola da bambino facevano di quell’epopea sud americana e mi vengono in mente soltanto immagini di desolazione e miseria. Quei racconti insistevano sugli sforzi che i salesiani fecero per migliore le condizioni di vita degli indios di queste zone, tuttavia l’idea di “civilizzazione” correva di pari passo con quella di “evangelizzazione” e nella eradicazione praticamente totale della cultura delle popolazioni di nativi fueghini le missioni hanno sicuramente giocato un ruolo importante. Ad ogni modo oggi non c’è città della Patagonia che non abbia un’arteria stradale o una piazza intitolata a Don Bosco.

    La città termina sull’estuario del fiume Gallegos, che le dà il nome. L’acqua, assieme alla luce australe bianca e violenta, danno a questo lungo fiume un’atmosfera irreale. A completare l’opera ci pensa un blocco di cemento sulla cui cima svetta un vero caccia bombardiere: è il monumento che ricorda “gli eroi della guerra della Malvinas”. Accanto, in un campo recintato e incolto, un cartello di legno che sembra uscito da «Zampanò» informa che in quell’area verrà costruito un teatro dedicato a Colombo. Il lotto più avanti, invece, ospita un parco giochi nuovo fiammante, pieno di bambini e adolescenti. Con queste immagini in testa, mentre a queste latitudini il sole fatica a tramontare, me ne vado a dormire. La mattina dopo sono al terminal degli autobus, che si trova davanti a una rotatoria dove svetta una piccola statua dorata di Eva Peron, che sembra quasi dimenticata nel mezzo dello spartitraffico. La partenza è prevista alle nove, ma ci vorranno almeno due ore in più prima che l’autobus sia sistemato, abbia fatto il rifornimento necessario e vengano dunque accesi i motori. Il viaggio di dodici ore si protrae sulla sfondo di un panorama praticamente sempre identico. Ancora quelle due lingue infinite, il blu del cielo, il giallo della pianura. A spezzare la monotonia ci pensa la frontiera cilena: una grossa tettoia di legno che svetta in mezzo al nulla. Attorno a quella specie di tempio alla burocrazia si affastellano macchine, camion, motociclette in modo disordinato. Sia in entrata che in uscita ci vorrà da una alle due ore semplicemente per mettere un timbro. Rientrando in Argentina, a San Sebastian, l’autobus imbocca la mitica “Ruta 3”, quella che arriva fino alla fine del mondo. Ancora ore monotone scorrono via assieme alla pianura, ma intanto si comincia a vedere l’oceano sullo sfondo. I due autisti bevono mate incessantemente e ascoltano un pop locale. Superato Rio Grande il sole comincia a calare e nelle ultime ore, quando sembrava oramai impossibile che esistesse altro panorama al mondo, la terra comincia a cambiare. Alberi, vegetazione, colline, infine montagne. Un’improvvisa impennata orografica sferza il paesaggio e spezza la monotonia. Siamo nell’ultimo colpo di coda della cordigliera andina, prima che si inabissi nell’oceano per proseguire verso l’Antartide. Ma lo intuisco soltanto, perché nel frattempo si è fatto buio. Arriviamo a Ushuaia che è quasi mezzanotte e la sua conformazione ripida, a strapiombo su una baia punteggiata di luci, mi sembra quasi un’allucinazione.

    Una città di frontiera
    La mattina seguente ho modo di osservare meglio la città, tutta rivolta al Canale di Beagle, dove c’è il porto. Una volta i condannati che raggiungevano la colonia arrivavano in nave e sbarcavano qui. Oggi invece il modo più semplice è l’aeroporto internazionale Malvinas Argentinas, che si trova su un promontorio a due passi dalla città. Qui il tema della guerra delle Isole Malvine (in italiano è questo il nome dell’arcipelago, anche se dal punto di vista storico diciamo “guerra delle Falkland”, seguendo la denominazione del vincitore) è molto sentito. Almeno dal punto di vista della retorica istituzionale. Ushuaia, capitale della provincia “Terra del Fuoco, Antartide e Isole dell’Atlantico del Sud”, è dal punto di vista delle rivendicazioni argentine anche la capitale delle Malvine. Lo si trova scritto un po’ ovunque, persino sugli autobus del servizio di trasporto pubblico, dove campeggia la scritta “Las Malvinas son argentinas”. Davanti alla baia un pezzo di parco è stato ribattezzato Plaza Islas Malvinas nel 2012, nel trentesimo anniversario della guerra del 1982. C’è una fiamma eterna che ricorda gli eroi della guerra, che altro non erano se non militari poco più che adolescenti mandati a confrontarsi con un esercito assai meglio equipaggiato come quello inglese. La guerra provocò 650 morti tra i militari argentini e 255 tra quelli britannici. Una serie di foto, accompagnate da didascalie di esaltazione patriottica, mostrano i volti di quei soldati poco più che ragazzini. È complicato farsi un’idea netta sulla guerra delle Falkland: l’Argentina era retta dalla dittatura di Videla e, con quel conflitto, giocò la carta dell’orgoglio nazionale che ancora adesso campeggia sui muri della città. D’altra parte l’Inghilterra, governata dalla Thatcher, pur essendo oggetto di un’invasione, di fatto non stava difendendo altro che un privilegio coloniale inviso anche agli altri stati latinoamercani (con l’eccezione del Cile di Pinochet, che fornì supporto logistico e spazio aereo “all’amica Margaret”). La retorica revanscista abbonda sui muri di Ushuaia, a partire dal monumento che campeggia nella piazza, dove si legge un profetico “vuelveremos!”, torneremo. Non è necessariamente così tra la gente del posto, che attraversa sonnacchiosa quei simboli muscolari senza curarsene troppo. Come sembra ignorare gli altri simboli sparsi lungo la costa: la commemorazione per la battaglia vinta contro gli spagnoli nel 1812 dall’eroe nazionale Manuel Belgrano, l’inventore della bandiera argentina (“Figlio di italiani!”, ci tiene a precisare un barista) e la targa, assai più piccola e nascosta, che omaggia gli oltre trentamila “compañeros desaparecidos” durante la dittatura di Videla, tanto piccola che quasi scompare nel cespuglio che la sovrasta.

    Proseguo con la mia passeggiata e arrivo al cimitero cittadino. Qui, un tempo, finiva la città. Oggi, che Ushuaia conta quasi sessantamila residenti – ma qualcuno dice ottantamila – è invece l’estrema propaggine del centro: il resto della città si espande oltre la baia, arrampicandosi sui monti. Entro per una breve visita, incuriosito dai simboli che custodiscono luoghi come questo, tanto più che ci troviamo in capo al mondo. Si tratta di un cimitero modesto ma pieno di patos. Mi colpisce il fatto che i fornetti non vengono murati, ma chiusi con una finestra scorrevole che – sbloccandola con una chiave – può essere aperta. Attraverso il vetro si vedono le bare e, con esse, gli omaggi che chi resta fa a chi se n’è andato. Dei fiori, un peluche, una bandiera di una squadra di calcio. È una particolarità che già avevo avuto modo di osservare nel cimitero di Buenos Aires, quasi che la morte fosse uno stato provvisorio, che basti girare la chiave e aprire la porta a vetri, alzarsi dalla bara e farsi un giro. Mentre mi fermo a pensare che a me europeo – abituato a tumulazioni ben custodite da mattoni e calcestruzzo – questo sguardo dentro le tombe mi sembra quasi impudico, dalle lapidi fa capolino un grasso coniglio che mi distoglie dai miei pensieri. Cerco di seguirlo, ma lo perdo subito di vista. In compenso mi soffermo sui cognomi. Perrone, Rivera, Kacinski. Italiani, spagnoli, slavi. Qui c’è gente di tutte le parti, come mi ha detto un tassista. E lei di dov’è?, gli ho chiesto. Di Buenos Aires, ma sono trent’anni che vivo qui. E come mai?, insisto. Si viene per cercare lavoro, si trova un posto tranquillo, si finisce per restare.

    voleveremos

    Esco dal cimitero e decido di mettermi a cercare qualche traccia della colonia italiana di Ushuaia. Da dove cominciare? Ho un indirizzo impreciso, Calle Marcos Zar, dove dovrebbe trovarsi la Società Italiana di Ushuaia. L’ho trovato su un articolo di giornale in cui mi sono imbattuto su internet, ma non c’era un civico preciso e non sono sicuro dell’esattezza dell’informazione. Gironzolo ancora nel porto, davanti alla casa Beban, una villa colonica costruita da una ricca famiglia della zona nel 1913, dedita al commercio e alla navigazione. Oggi è un monumento cittadino. Lì di fronte vedo dei personaggi vestiti in modo strano: un uomo barbuto con un cappello a cilindro, una ragazza con un vestito leggero, un chitarrista. Una troupe li sta riprendendo. Si avvicina una ragazza della produzione e mi spiega: si tratta di un videoclip di tango che stanno realizzando. C’è una scena di tango a Ushuaia?, chiedo meravigliato. Piccola, ma c’è – risponde lei. Cominciamo a parlare e ci presentiamo: lei di cognome fa Lupiano. Un nome che ho già sentito. Leonardo Lupiano è autore di vari articoli sulla comunità italiana che ho rintracciato su internet. Non faccio in tempo a formulare questo pensiero che la ragazza, a cui ho raccontato lo scopo della mia ricerca, mi svela di essere figlia di Leonardo. Un argentino nato da migranti italiani. La ragazza mi spiega che suo padre è fuori città, ma lo contatta comunque. Mi raccomanda di cercare Maria Pontoni, ex presidente della Società Italiana. È una delle italiane venute qui nel 1949, una delle poche persone ancora vive. Vive non lontano dalla sede della Società Italiana, nel Barrio Solier. Comincio la mia ricerca.

    Gli italiani di Ushuaia
    Al Barrio Solier tutto sembra addormentato. È un fine settimana di febbraio e la gente che non è andata a godersi la bella giornata fuori città – qui è piena estate, anche se il clima è montano e si sta con la giacca – probabilmente sonnecchia davanti alla tv. Trovo con facilità la Calle Marcos Zar. All’inizio della via noto una statua che raffigura una donna che allatta un bambino. Come natività è piuttosto strana, così la osservo da vicino. Non si tratta di un’immagine sacra, ma di un omaggio alle madri, come recita la targa del 1969. Un omaggio del Barrio Solier. Siamo decisamente in un quartiere di italiani.

    Trovo la Società Italiana poco più avanti. Un edificio celeste, a un piano unico, piuttosto modesto, con una graziosa tettoia in legno che copre l’ingresso. Purtroppo non c’è nessuno. Anche i tentavi di contatto che ho provato su Facebook, dove c’è una pagina ufficiale, non sono andati in porto. Non mi resta che provare col metodo antico: chiedere in giro. Fermo una coppia di ragazzi. Sono paraguayani, vivono a Ushuaia da cinque anni perché hanno trovato lavoro nel settore turistico. “Molta gente viene qui per questo, dal nord dell’Argentina, dal Paraguay, dal Cile”. Ci metto poco a capire che anche il quartiere italiano, oggi, ha una composizione molto diversa. Loro, ad esempio, sanno che esiste la Società Italiana ma non conoscono nessuno che ne faccia parte. Si offrono di farmi fare qualche telefonata al numero che compare sulla bacheca della sede, ma anche questo tentativo va a buca. Li ringrazio e li saluto.

    Decido allora di provare a suonare il campanello delle case attorno alla sede. Provo chiedendo direttamente di Maria Pontoni, una degli ultimi italiani arrivati nel 1948. Il primo tentativo va a vuoto, il secondo no. Una signora anziana mi guarda prima con diffidenza, poi quando capisce chi sto cercando mi dice: “La conosco, Maria Pontoni. Abita alla fine della via in una casa verde”. Ringrazio e vado a cercarla. La fortuna mi assiste e la trovo in casa. Maria Pontoni è una signora di quasi ottant’anni, capelli bianchi, un bel sorriso e vivaci occhi chiari dietro le lenti degli occhiali. Appena le spiego perché sono lì passa dal castigliano all’italiano, che parla benissimo. “Aspettami un momento: prendo le chiavi della Società e ti faccio fare una visita”.

    Dentro, la sede della Società Italiana, si rivela uno stanzone vasto e spoglio, con una cucina da ristorante. Le attività principali sono culturali e ricreative: feste, lezioni di ballo e di italiano, canto lirico. E ogni tanto si affitta la sala per un evento, per rientrare delle spese. Mentre mi mostra tutto, la signora Maria mi racconta la sua storia. È arrivata a Ushuaia con la seconda imbarcazione, nel 1949. Aveva solo otto anni. “Qui non c’era niente. Il quartiere lo hanno costruito gli italiani. C’era tanta neve e le case erano fatte di cartone. Non si stava male, però, perché con le intercapedini d’aria si riusciva a tenere fuori il freddo. Poi dipende. Io sono di Perugia, anche se per caso sono nata in Sardegna. Per chi viene dall’Umbria il freddo intenso non è una novità. Ma c’era anche chi non riusciva ad adattarsi”.

    Maria Pontoni mi mostra le foto di quel tempo: la nave “Genova”, le case in costruzione, la neve ovunque, la strada ferrata che andava dal monte in città, per trasportare la legna che si faceva nei boschi e serviva per riscaldarsi e per costruire le abitazioni. “Oggi chiaramente è tutto diverso. A Ushuaia nemmeno nevica più. Prima la temperatura poteva arrivare a 24° sotto zero, d’inverno. Oggi oscilla tra i 5° e i 10°”. È il microclima della città, fatto di impianti di riscaldamento e strutture in cemento, dove ormai abitano decine di migliaia di persone. Qualcuno sostiene che forse c’entri anche il buco nell’ozono, che nelle zone australi si avverte più che altrove. Ad ogni modo le foto che mi mostra la signora Maria raccontano una realtà rurale, montana, che non esiste più. Uno dei motivi è connesso alla stessa presenza degli italiani, chiamati qui per trasformare questo remoto avamposto in un centro industriale.

    “Il governo argentino fece un accordo con Carlo Borsari, un imprenditore bolognese. Volevano fare in modo che la gente non se ne andasse da Ushuaia, anche grazie a una politica di detassazione. Le imprese italiane erano favorite da un accordo bilaterale tra i due paesi. Così Borsari presentò il suo progetto, che venne scelto, e ci portò tutti qui”. L’imprenditore bolognese, che Italia era proprietario di una grande falegnameria e di una ditta di costruzioni, impiantò attività simili anche a Ushuaia, concentrandosi sulla produzione di formica e compensato. Ma gli italiani non si limitarono a lavorare in fabbrica: costruirono strade, edifici, una centrale idroelettrica. Inventarono una città laddove non c’era, aiutati soprattutto da cileni che, come gli operai di Borsari, arrivavano attratti dalle possibilità di lavoro e dalle favorevoli condizioni economiche e fiscale. Solo quello c’era di favorevole, però. Perché questa cittadina a due passi da Capo Horn, che dista nemmeno mille chilometri dalla Penisola Antartica, all’epoca era piuttosto inospitale. Ancora oggi è possibile vedere, lungo la via che porta a Ushuaia, una gran quantità di alberi spezzati in due dal vento, che qui soffia con forza brutale. Addomesticare questo ambiente non deve essere stato uno scherzo.

    “A partire per Ushuaia furono principalmente emiliani, gente delle terre di Borsari. Ma c’erano anche molti friulani e altre famiglie che venivano da zone limitrofe, come noi da Perugia”, mi spiega Maria Pontoni. E mentre parla apre una porticina in fondo alla sala. “Questa era la cappella, la piccola chiesa che costruirono gli italiani appena arrivati qui”. C’è uno spazio antistante che serviva da sagrestia e oggi, invece, conserva appese al muro le foto di quell’esodo di italiani in capo al mondo. La cappella vera e propria, piccola e graziosa, con il tetto di legno a spiovente, è oggi la sala dove si tengono le lezioni di italiano, dato che le funzioni religiose sono state ricollocate in una nuova chiesa più grande e funzionale, costruita un centinaio di metri più su. Nella cappella c’è una piccola biblioteca, una cartina dell’Italia e in fondo c’è ancora un’acquasantiera in marmo incastonata nel muro. Sopra c’è una targa che raccoglie i nomi di tutti i duemila italiani venuti a Ushuaia settant’anni fa esatti.

    “L’ho voluta io quando ero ancora presidente della Società. Ormai siamo rimasti in pochi, di quei duemila. Qualcuno non si trovò bene e andò a lavorare al nord, verso Buenos Aires. Qualcun altro se ne tornò in Italia. Anche perché il progetto di industrializzazione non funzionò del tutto, le cose cambiarono e ognuno si muove cercando le migliori opportunità. Ma la maggior parte rimase. Oggi, però, sono tutti morti ovviamente. Rimaniamo solo i cinque, quelli che erano bambino. Io, che sono arrivata quando avevo otto anni, sono quasi la più giovane: c’è un uomo che all’epoca aveva otto mesi e che è il più giovane dei cinque”. Maria Pontoni prosegue raccontando il destino di alcuni dei migranti italiani e dei loro figli, soprattutto di chi ha fatto fortuna. Molti nel commercio, qualcuno è diventato avvocato, qualcuno nelle istituzioni. È soddisfatta di quello che gli italiani hanno realizzato in questa città e, con una punta di orgoglio, dice che all’epoca erano quelli che lavoravano meglio.

    All’ingresso della cappella c’è una teca di vetro, con dentro una madonna di legno. “È la madonna originale che i primi seicento italiani portarono qui a Ushuaia. L’abbiamo fatta restaurare e la teniamo qui”, mi spiega la signora Maria. Sembra infatti che Carlo Borsari avesse fatto imbarcare nella spedizione anche un sacerdote, dopo una visita propiziatoria per la sua impresa in Vaticano, durante la quale assicurò a papa Pio XII che si sarebbe preso cura non solo della salute fisica dei suoi operai, ma anche di quella spirituale. Ricevette in cambio questa statua della Madonna, che dopo settant’anni è ancora qui.

    Maria Pontoni prosegue il suo racconto soffermandosi sulla vita degli italiani in questa estrema propaggine della Patagonia. I suoi racconti trasudano fatica fisica, ma sono tutt’altro che disperati. Forse sono gli occhi dell’infanzia a rendere belli i suoi ricordi, ma forse gioca un ruolo anche l’amore per questa terra che ormai è diventata la sua. Ritroverò questo misto di fiducia e fatica qualche giorno dopo, nei racconti di Franco Borsari, il figlio di Carlo, in un’intervista che riesco a rintracciare su internet, dove si racconta di un pinguino malato che la gente del posto accolse e sfamò a tagliatelle, scoprendo che ne andava ghiotto. Come sempre, in storie come questa, a ribaltare i costi della fatica fisica ci pensa la fiducia nel futuro.

    Il carcere è dentro o fuori?
    Saluto la signora Maria, che mi fa gli auguri per il lavoro dei giovani in Italia. Uno dei suoi nipoti – un piccolo pezzetto di famiglia – ha deciso di sfruttare la doppia nazionalità e di trasferirsi lì. Sa che le cose non vanno benissimo, ma resta fiduciosa. Lei in Italia ci è tornata una volta soltanto e probabilmente non lo farà più: il suo posto è Ushuaia. Io mi incammino verso la parte opposta della città, dove c’è il Museo del Presidio, che sorge nel vecchio carcere della città. La struttura fu costruita alla fine del Diciannovesimo secolo e inaugurata nel 1901, quando la colonia penale si spostò dall’Isola degli Stati a qui. Nonostante Ushuaia fosse più accessibile, questo non significava che il carcere non fosse comunque di massima sicurezza. A dirla tutta, nella sua storia, si registrarono diverse evasioni, ma spesso finivano con i prigionieri che, non riuscendo a fronteggiare l’asprezza del clima, tornavano a bussare alla porta del carcere. In qualche caso morivano, mentre solo in poche occasioni non si seppe più niente dei fuggitivi: magari qualcuno è riuscito davvero a farsi un’altra vita lontano, qualcun’altro, invece, sarà morto chissà dove.

    Oggi i cinque bracci del carcere, disposti a raggiera in una sorta di panopticon attorno a un’area centrale da dove è possibile controllare tutti gli ingressi, ospita diversi tipi di musei. Esposizioni di fotografia e di arte contemporanea, una collezione di bambole piuttosto inquietante e un museo della navigazione, con riproduzione delle imbarcazioni più famose. Poi, naturalmente, c’è un’esposizione fotografica che racconta la colonia penale. I detenuti, vestiti con la classica divisa a righe bianche e nere dell’epoca, vivevano in celle piuttosto anguste. Nonostante le didascalie cerchino di evidenziare anche gli aspetti più umanitari, come la qualità del rancio e l’assistenza medica, le condizioni di vita dovevano essere piuttosto difficili, come testimonia il padiglione non restaurato, quello che meglio racconta le condizioni dell’epoca. I prigionieri erano costretti ai lavori forzati – furono loro a realizzare le prime infrastrutture di Ushuaia – e le iscrizioni assicurano che vi si dedicavano di buon grado, nonostante la pesantezza del lavoro, per non morire di inedia in cella. C’è anche una serie di manufatti, dai mobili di una casa di bambola ai soprammobili ricavati con legno e osso, opera dei prigionieri che si ingraziavano il direttore del carcere e della polizia penitenziaria con questi regali. Spesso sono torniti in modo mirabile.

    ushuaia

    La colonia penale di Ushuaia ospitava principalmente detenuti che si erano macchiati di crimini efferati, ma anche intellettuali mandati al confino, come lo scrittore e drammaturgo Ricardo Rojas. Tra i detenuti più conosciuti c’è Santos Godino, meglio noto come il “petiso orejudo”, il piccoletto orecchiuto, soprannome che deriva dalla sua statura e dalle sue orecchie pronunciate. Godino fu un serial killer e piromane recidivo che nel 1921 si macchiò di vari omicidi e tentati omicidi anche nel manicomio dove fu dapprima rinchiuso. Dopo una complicata vicenda giudiziaria, durante la quale si discusse molto sulle sue capacità di intendere e volere, fu trasferito a Ushuaia. Lì si inimicò ben presto gli altri detenuti, che lo picchiarono ferendolo seriamente quando uccise un gatto che i prigionieri avevano adottato. Trascorse l’ultimo decennio in constante malattia, morendo in circostanze non chiare nel 1944. Oggi la sua figura quasi fumettistica, associata in modo indelebile a Ushuaia, si incontra spesso per i muri della città.

    Ma forse il detenuto più famoso fu Simón Radowitzsky, un anarchico argentino, nato in Ucraina da famiglia ebraica. Radowitzsky fu un importante agitatore sindacale e dopo la cosiddetta “settimana rossa” del 1909 – un momento di grandi manifestazioni dei sindacati argentino represso nel sangue dall’esercito – portò a termine un attentato dinamitardo in cui rimase ucciso il colonnello Ramón Falcón, a capo della repressione. Essendo appena diciottenne, e dunque minorenne per l’epoca, scampò la pena di morte e fu condannato all’ergastolo. Nel 1919 si rese autore di una delle fughe più spettacolari dal carcere di Ushuaia, aiutato da un gruppo di anarchici che si recarono in Cile, nella vicina Puntas Arenas, per organizzarla. Dopo la fuga il gruppo fu tratto in salvo da Pascualin Rispoli, un italiano di Puntas Arenas noto come “l’ultimo pirata del canale di Beagle”. Ma la loro fuga finì presto, perché vennero intercettati dalle autorità cilene che li riconsegnarono a quelle argentine. Radowitzsky però non finì i suoi giorni ad Ushuaia: nel 1930 fu graziato e, dopo un periodo in Uruguay, andò in Spagna a combattere contro Franco. Ancora oggi la figura di Radowitzsky è tra quelle maggiormente mitizzate dall’anarchismo argentino.

    La Sociedad Italiana
    In serata, con un messaggio, mi arriva il numero di telefono di Alberto Marotta, l’attuale presidente della Società Italiana. Marotta risponde subito ai miei messaggi e mi da appuntamento per il giorno dopo da Ramos Generales.

    Ramos Generales, come scoprirò, non è soltanto un bar, ma un vero e proprio monumento all’Ushuaia che fu. Il proprietario ha voluto conservare gli arredi originali, riempiendo le pareti del locale di molti oggetti antichi, dagli apparecchi radio ai giocattoli, dalle racchette da tennis alle pentole, passando ovviamente per un mucchio di foto. Tutte cose importanti perché, mi dicono, “vengono dall’Europa”. In fondo al locale, nella seconda sala, spicca un manifesto in metallo del Cinzano. Lì incontro il signor Marotta, un uomo cordiale e loquace, che ricopre il ruolo di presidente della Società Italiana da circa un anno. Lui ha solo parenti italiani ed è nato al nord, ma vive a Ushuaia da diversi anni. “Oggi nella Società sono attive circa centocinquanta persone. È una piccola comunità. Ovviamente gli italiani nel loro complesso sono di più, tra i duemila e duemila e cinquecento, ma non tutti partecipano alle attività della Società. Oggi Ushuaia è molto più grande che al tempo di Borsari e quella italiana, tutto sommato, è una comunità abbastanza ridotta rispetto ad altre. Ci sono molti cileni che vengono qui a lavorare nel turismo, Uruguayani e Paraguayani. E anche tante persone che abbandonano Buenos Aires perché cercano qualcosa di più tranquillo”. In effetti molti argentini che ho incontrato qui vengono tutti dal nord. Federigo, un ragazzo porteño di nascita ma cresciuto qui con cui ho scambiato due chiacchiere al Museo, mi racconta che gli stipendi possono essere persino il triplo di quelli della capitale. Oltre al turismo, infatti, c’è una fabbrica per l’assemblaggio di componenti elettroniche che dà da lavorare a molta gente. Il fatto che Ushuaia sia così remota le permette ancora di sfruttare diverse agevolazioni fiscali.

    Alberto Marotta è convinto che la Società Italiana debba guardare al futuro e cercare di diffondere il più possibile la cultura italiana a Ushuaia, farla conoscere anche a chi non è italiano. Perché la storia del viaggio dei duemila italiani arrivati in Patagonia è una mitologia affascinante ma lontana nel tempo: i testimoni rimasti erano i bambini di allora. In effetti, anche molti membri della comunità, oggi, sono argentini con “sangre italiana”, come dicono qui, ovvero che hanno nonni o genitori italiani ma che sono nati qui in Sudamerica.

    Marotta è appassionato della storia della sua città, che conosce molto bene. “C’è una Ushuaia nascosta, che conoscono in pochi – mi spiega – e che i turisti non sanno vedere”. Mi porta nel retro del locale, dove i proprietari hanno allestito una sorta di piccolo museo con gli oggetti più preziosi: una macchina per scrivere Remington originale, un antico registratore di cassa, diversi quadri. Il signor Alberto mi mostra una pergamena del 1930, che ringrazia il proprietario dell’epoca, un certo signor Salomon, per la sua ospitalità. A ringraziarlo è il comitato dei passeggeri del Monte Cervantes, una nave passeggeri nota come “il Titanic argentino” a causa dello spettacolare naufragio che avvenne proprio nei pressi di Ushuaia. A differenza del disastro del celebre transatlantico, tuttavia, si registrò una sola vittima. Infatti il Monte Cervantes, il cui scafo fu squarciato a causa del basso fondale in una zona di canale imboccata per sbaglio, riuscì comunque a fare una manovra di avvicinamento alla riva durante la quale ci fu il tempo di mettere in salvo i passeggeri. L’impatto dell’evento fu notevole e la memoria resta ancora viva: nel 1930 a Ushuaia vivevano ottocento persone ed esisteva una sola locanda con quattro posti letto in tutto, mentre i passeggeri del Monte Cervantes erano quasi mille e duecento, più trecento persone di equipaggio. Tutta la popolazione del paese dovette mobilitarsi per prestare soccorso ai naufraghi, che furono riportati a Buenos Aires soltanto una settimana più tardi.

    In fondo alla vecchia cucina vedo una bandiera turca, rossa con la falce di luna bianca, e ne chiedo la ragione a Marotta. “Nel 1918, dopo la fine della prima guerra mondiale, si stabilì qui una comunità di siriani e una di libanesi. Furono loro a costruire il paese. Ma all’epoca non esisteva né la Siria né il Libano, solo l’impero ottomano in disfacimento. Arrivarono qui con un passaporto turco e noi, ancora oggi, ci riferiamo a loro chiamandoli ‘turchi’. Così come chiamiamo ‘slavi’ i croati che arrivarono poco dopo e ‘russi’ gli ebrei dell’est Europa. Tutte comunità che hanno fatto la storia della nostra città, assieme a quella degli italiani che però, nel 1948, ribaltò le percentuali della popolazione raddoppiandola in un colpo”.

    Le vie delle migrazioni
    Saluto Alberto Marotta che mi stringe la mano e mi invita a tornare quanto prima. Prima di partire, su suo suggerimento, decido di fare una visita al piccolo “Museo territoriale”, ribattezzato per esigenze romantiche e turistiche “Museo della fine del mondo”. Si trova in uno degli edifici antichi di Avenida Maipú, di fronte al canale. È gratuito ed espone alcuni reperti archeologici e una sezione di fauna imbalsamata, soprattutto uccelli, condor, pinguini. C’è anche uno schermo dove appaiono, a rotazione, una serie di foto di Ushuaia di epoche diverse, attraverso le quali ci si può fare l’idea dell’espansione urbanistica. Ma la sezione che attrae di più il mio interesse si trova in una piccola stanzetta in fondo, dedicata alle popolazioni native della Terra del Fuoco. Gli Aonikenk, gli Oni, gli Alakuf, tribù autoctone di origine mongola, migrate in questo sud remoto dalle steppe dell’Asia nella notte dei tempi, esigui numericamente ma con una ricchezza linguistica che si diramava in tre ceppi principali. Oggi di queste popolazioni fueghine non rimane più nulla. L’ultimo fueghino “purosangue”, se così si può dire, è morto nel 1999 e da allora la popolazione si considera estinta. Di loro, a Ushuaia, restano i nomi esotici delle tribù che a volte vengono usate per nominare gli alberghi, gli ostelli o i ristoranti. L’esposizione fotografica li mostra dapprima coperti di pelli, nelle capanne, e poi in abiti occidentali, nel corso del loro progressivo processo di “civilizzazione”. Alcuni di loro, dopo essere entrati in contatto con gli esploratori, furono portati a Londra per essere esposti al pari di animali selvaggi, dopo di ché furono sottoposti a esperimenti di civilizzazione che gli europei dell’epoca seguivano con curiosità. Quell’evento segnò il countdown verso l’estinzione delle tribù fueghine.

    Mi viene in mente in quel momento che tutta la toponomastica di Ushuaia – con l’eccezione dei sempre presenti eroi nazionali argentini – è dedicata alle scoperte geografiche e antropologiche. Suggestivamente c’è un punto, nella città alta, dove Magellano incrocia Darwin. E proprio Darwin descrisse per primo queste popolazioni – in particolare la tribù degli Yamana – raffigurandone i membri come esseri sudici, inferiori, selvaggi, dediti all’antropofagia. Era il 1831. La nave che lo portò qui si chiamava Beagle (da cui il nome del canale) ed era comandata dal capitano FitzRoy, a cui è dedicata una delle vette più spettacolari della Patagonia. La presenza di un “filosofo naturale” a bordo dell’imbarcazione era dovuta al fatto che la missione che gli esploratori stavano svolgendo aveva anche il compito di produrre le prove scientifiche dell’esattezza del racconto biblico della Genesi. Darwin all’epoca aveva poco più di vent’anni e, come si sa, l’esito dei suoi studi portò a tutt’altre conclusioni. Parallelamente ai vasti orizzonti che si aprirono per la scienza, quelli delle tribù native della Terra del Fuoco si andarono chiudendo drasticamente: bastarono pochi decenni di colonizzazione perché, sostanzialmente, la loro cultura scomparisse. Persino il nome che diamo alla loro terra ha poco a che fare con la loro lingua. La Patagonia, infatti, è la terra dei Patagoni, nome che il portoghese Fernão de Magalhães – meglio conosciuto come Magellano – diede agli Aonikenk e ai Tehuelche. Perché, a quanto sembra, li aveva scambiati per dei giganti a causa della loro stazza. Il conio definitivo, però, sarebbe toccato a un italiano, probabilmente il primo ad arrivare da queste parti: il veneziano Antonio Pigafetta, che stilò il resoconto del viaggio. Per alcuni il termine “patagón” sarebbe un calco di una novella celebre ai suoi tempi, il Primaleón, pubblicato nel 1512; per altri l’etimologia sarebbe incerta, ma il significato sarebbe pressappoco quello che usiamo oggi per un animale fantastico, il Bigfoot: “dai grandi piedi”.

    Mentre saluto Ushuaia ripenso al nuovo museo dell’immigrazione a Buenos Aires, dove la storia dei migranti italiani e spagnoli viene esaltata per rivendicare le radici europee dell’Argentina. Tutto il contrario che da noi, verrebbe da pensare. Ma guardando a questa piccola stanza del Museo della Fine del Mondo, dove viene relegato il ricordo delle popolazioni fueguine, viene da pensare che in fondo anche nell’emisfero australe le cose non sono poi così ribaltate rispetto all’Europa.

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    bellissima storia, penso ce ne siano molte (riguardanti non solo italiani) in tutto il mondo
    ho sempre visto la Terra del fuoco come una terra ventosissima, ma non fredda, chissà perchè
     
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    CITAZIONE (Baba O'Riley @ 2/5/2018, 13:12) 
    ho sempre visto la Terra del fuoco come una terra ventosissima, ma non fredda, chissà perchè

    questa me la devi spiegare
     
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    Ma boh alla fine è vicina al tropico. l'Argentina non è un posto freddo
     
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    CITAZIONE (Baba O'Riley @ 4/5/2018, 00:07) 
    Ma boh alla fine è vicina al tropico. l'Argentina non è un posto freddo

    guarda che Buenos Aires ha un clima continentale :hihi:
     
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4 replies since 23/4/2018, 19:39   54 views
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