Le città segrete senza nome che l'URSS nascondeva anche dalle mappe

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    Le città segrete senza nome che l'URSS nascondeva anche dalle mappe


    Il governo russo ne ha riconosciuto una quarantina, ma si pensa che ce ne siano molte altre.



    In Occidente ormai da tempo sta prendendo forma il sogno sovranista di città protette da muri, sorvegliate, dalla popolazione omogenea e piene di orgoglio identitario. Il drammatico paradosso è che città così sono esistite davvero fino a pochissimi anni fa, anzi: alcune esistono ancora oggi. Sono le ZATO dei territori che un tempo appartenevano all’Unione Sovietica. La sigla ZATO sta per “formazioni amministrativo-territoriali chiuse”, quasi sempre città costruite in pochissimo tempo per scopi militari, spesso intorno a siti per la ricerca o lo sviluppo di armamenti nucleari. E sempre per scopi militari le città erano spesso anche città segrete, tenute fuori da qualsiasi mappa in modo da non poter essere attaccate in caso di conflitti armati. Per lo stesso motivo gli abitanti non erano iscritti ai registri di residenza e i nati nelle città segrete non erano iscritti all’anagrafe.

    E non parliamo di un fenomeno marginale, di qualche migliaia di persone intrappolate in palazzi all’interno di zone militari, ma di vere e proprie città da decine e da centinaia di migliaia di persone. Qualche anno fa il governo russo ha ammesso l’esistenza di quarantaquattro città chiuse, per un totale di un milione e mezzo di abitanti.

    I cittadini delle città segrete erano spesso coloro che lavoravano al sito militare o nucleare, e i servizi di cui godevano erano ben superiori a quelli nel resto del territorio: teatri, biblioteche, università e scuole di qualità, cibo e servizi introvabili nelle zone sovietiche presenti sulle mappe. Nei racconti di chi ha abitato queste città si sente spesso parlare di sicurezza: bambini liberi di uscire a giocare all’aperto senza controlli e assenza totale di piccola criminalità e di povertà. Lo stato forniva assistenza, servizi e beni agli abitanti delle città segrete mettendo mano a risorse ingenti.



    Ma nulla è davvero gratuito, soprattutto se si tratta della pace sociale. Il prezzo da pagare per vivere in delle città simili a delle gabbie dorate non era soltanto quello di non poter uscire (se non con dei permessi) e di non vedere nessuno arrivare da fuori città. Il prezzo era molto più alto, oltre alla libertà, infatti, era compromessa la salute: i siti nucleari inquinavano terreni, fiumi, aria e laghi senza troppe remore, e nonostante gli incidenti fossero frequenti le città non venivano evacuate. Perché un luogo chiuso lo è nel bene e nel male. Così gli abitanti subivano in silenzio le sofferenze indotte da tumori e malattie dovute all’esposizione alle radiazioni e all’inquinamento da metalli pesanti. Il lago Karachay è l’esempio più famoso dell’avvelenamento sistematico di migliaia di persone, è uno dei laghi che si trovano al centro dell’attuale Russia, nella zona degli Urali, e viene chiamato ancora oggi “il lago di plutonio” o “il lago radioattivo”. Le stime parlano di migliaia di persone morte e avvelenate, tutti cittadini che potevano godere del latte in polvere e del teatro alla moda ma che poi, una volta messi di fronte alle conseguenze più nefaste del vivere in luoghi esposti all’inquinamento industriale o militare, venivano rimandate a casa dagli ospedali semplicemente dicendogli che il loro male non era dovuto alle attività governative.

    Uno degli eventi più significativi del disastro umanitario che furono le città segrete è il cosiddetto “incidente di Kyshtym”, un incidente avvenuto nella città segreta di Ozyorsk, ma che venne chiamato “incidente di Kyshtym” proprio perché di Ozyorsk non se ne sapeva nulla. Il disastro accadde il 29 settembre del 1957, con un'area di oltre ventimila chilometri quadrati che venne contaminata dalle radiazioni e con lei le duecentosettantamila persone che la abitavano. Parliamo di uno degli incidenti nucleari più gravi di sempre, ma Ozyorsk non fu evacuata se non molti giorni dopo. Perché mai evacuare di fretta persone che, almeno ufficialmente, non esistono?

    Così come nel caso dell’incidente di Kyshtym, molti altri disastri ambientali sono stati coperti con la semplice imposizione del silenzio. Non era troppo difficile farlo con cittadini inesistenti sulla carta, e con città inesistenti sulle mappe. Era sufficiente imporre il segreto di stato, negare il coinvolgimento o le colpe del governo e fare leva sull’ideologia nazionalista e autoritaria inculcata agli sfortunati abitanti delle zone colpite, che negli anni avevano sviluppato un grande senso di orgoglio: vivere in una città chiusa significava lavorare per la patria, fare sforzi e sacrifici per gli ideali politici in cui si crede. Dopotutto, nonostante molti disastri, laghi zeppi di plutonio e percentuali alte di morti infantili, le città chiuse godevano comunque di un’aspettativa di vita più alta che nel resto della Russia. Questo per due motivi: i servizi sanitari e il cibo erano ottimi se paragonati a quelli fuori dalle mura, ma soprattutto la guerra fredda non fu mai una guerra vera, non esplose, rimase congelata e quelle città sorte a ridosso di punti strategici militari e nucleari non vennero mai bombardate.



    Il segreto, in molti casi, è ancora tale: per quanti incidenti nucleari e avvelenamenti di falde acquifere e di terreni si possano dimostrare, è impossibile dire quali delle vittime si ammalarono per via degli incidenti e quali invece per via della lunga esposizione a un inquinamento più lieve, ma accettato dagli abitanti stessi. Perché di questo si trattava: un tacito accordo, uno scambio crudele e infame dove a una vita decente, senza fame e povertà, corrispondeva un’altissima probabilità di morire avvelenati. Oltre alla mancanza di libertà, ovviamente.

    C’è un film russo che racconta delle città segrete, si intitola City 40 e lo ha girato Samira Goetschel. In particolare parla degli abitanti di Ozyorsk, che al tempo veniva chiamata "Città 40". Gli abitanti, costretti alla prigionia da reti metalliche erano convinti di essere degli eroi, dei martiri che in nome di “sacrosanti ideali” aiutavano il bene a sconfiggere il male. È l’illusione che regala qualunque ideologia, soprattutto se portata all’estremo: chi ci crede e rimane al suo interno è un rispettabile affiliato, chi sta fuori un alieno corrotto dal male del mondo.

    Di città chiuse non ne sono rimaste tante, una in Nebraska, una nel deserto del Gobi costruita dalla Cina durante la sua corsa al nucleare e probabilmente un’altra dozzina in Russia oltre alle quarantaquattro già desecretate. Ma l’idea della chiusura è più viva che mai, è quella che nutre il sovranismo che avanza in Occidente e foraggia qualunque regime autoritario, è la convinzione che una società aperta sia impossibile e dannosa. In ogni sovranismo e in ogni nuovo fascismo c’è un po’ di speranza di cadere nel tranello politico delle città chiuse, di privarsi della libertà e abbracciare l’ideologia autoritaria. Per questo le città chiuse oggi sono più attuali che mai, e forse non è un caso che il nuovo bellissimo libro di Viola Di Grado, Fuoco al cielo, sia ambientato proprio in una città chiusa.

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