Agroalimentare, il vero “gioiellino” dell'industria italiana

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    Dio li fa, Chuck Norris li distrugge, Mc Gaiver li aggiusta

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    Agroalimentare, il vero “gioiellino” dell'industria italiana

    pasta



    L’industria alimentare italiana è sempre più votata all’export: è la prima esportatrice al mondo di pasta, in seconda posizione per i vini e la terza per cioccolata e preparati con cacao. Le 55 mila imprese attive nel settore sono in gran parte di piccole dimensioni e se va male la domanda interna, hanno aumentato le esportazioni di oltre il 10% sul 2010, portando il valore complessivo dell’output ad oltre 23 miliardi di euro. E quasi la metà delle imprese investe in innovazione e sviluppo.

    Secondo comparto manifatturiero del Paese, con 127 miliardi di fatturato e circa 390 mila addetti (10% della manifattura), l’industria alimentare costituisce, assieme alla moda, l’emblema dell’italian way of living. Secondo l’indice delle eccellenze competitive dell’Italia stilato dalla Fondazione Edison, il nostro Paese detiene la prima posizione nell’export mondiale di pasta (1,8 miliardi di dollari), la seconda nell’export di vini (3,9 miliardi di dollari), la terza nell’export di cioccolata e di altre preparazioni alimentari contenenti cacao (890 milioni di dollari).

    Dai vini delle Langhe, ai salumi di Modena e Parma, passando per le conserve di Nocera, le bollicine di Trento, il cioccolato di Torino, fino ad arrivare alla mozzarella di bufala della Campania ed all’olio della Puglia, la ricchissima filiera della produzione agroalimentare italiana affonda le proprie radici nelle tradizioni e nella storia stessa del Paese. Le 55 mila imprese attive nel settore, organizzate prevalentemente per distretti (sono ben 41 quelli censiti dal Monitor dei Distretti di Intesa San Paolo), sono nella grandissima parte dei casi di piccole dimensioni. Cosicché le aziende alimentari più strutturate rappresentano un numero davvero esiguo (ne sono alcuni esempi Nestlè, Barilla, Unilever, Ferrero, Illy, Orogel, Rana, Parmalat, Perfetti, Conserve Italia) e il valore medio di addetti per impresa è di poco superiore a 7, inferiore ai 9,5 addetti medi delle imprese manifatturiere. Nonostante i processi di concentrazione avvenuti tra la metà degli anni ‘80 ed i primi anni ‘90, l’industria alimentare italiana continua così ad essere connotata da grande frammentarietà; una condizione, questa, che inevitabilmente condiziona in senso negativo la propensione all’export, l’impronta manageriale delle imprese e soprattutto i rapporti di forza con le potenti centrali di acquisto della grande distribuzione organizzata.

    Ciò nonostante, dal punto di vista dinamico il settore, anche negli anni di maggiore intensità della crisi (2008-2009), ha continuato a manifestare una generale stabilità del sentiero di crescita, evidenziando una notevole capacità di tenuta. Se ne trae conferma anche dal fatto che la produzione alimentare del Paese nel decennio 2000-2010 ha messo a segno un +12,1%, con oltre 27 punti di differenza rispetto al -15,4% segnato in parallelo dall’industria manifatturiera nel suo complesso. Il 2011, secondo le rilevazioni del Centro Studi Federalimentare, presenta due facce. Da un lato il persistere della stagnazione dei consumi interni, con la produzione, che per la terza volta dal Dopoguerra, ha registrato valori negativi (-1,5%); dall’altro il buon andamento delle esportazioni, che hanno compensato in parte il calo della domanda interna e visto un incremento di oltre il 10% sul 2010, portando il valore complessivo dell’output ad oltre 23 miliardi di Euro. Il 2012 sarà, stando alle proiezioni di Federalimentare, un anno complicato. Se infatti alla discesa del 2009 (-1,5%) aveva fatto seguito il buon rimbalzo del 2010 (+2%), per il 2012 viene previsto un ulteriore indebolimento del trend produttivo, valutabile prudenzialmente attorno al -1%. E sul fronte interno potrebbe andare anche peggio, visto che la stessa organizzazione dei produttori alimentari aderente a Confindustria stima come l’ulteriore incremento Iva di due punti delle fasce al 10% e al 21%, previsto nella manovra del governo Monti appena varata, allargherà il molto probabile impatto recessivo al 75% dei prodotti alimentari.

    L’erosione dei volumi sul mercato interno, come detto, è stata in parte recuperata dall’andamento dell’export: ormai quasi un prodotto alimentare su 5 viene esportato. Nel confronto con altri settori manifatturieri maggiormente export oriented, si tratta di un dato basso – su cui pesa, come detto, la frammentarietà del tessuto produttivo oltre al dimensionamento medio delle imprese – ma pur sempre in crescita: il 2011 replica infatti l’aumento del 2010 (+10,5%). Emblematico in tal senso il caso del Grana Padano, il prodotto Dop più consumato del mondo, per il quale il 2011 si è concluso addirittura meglio del 2010 (4,6 milioni di forme prodotte), con un ulteriore incremento delle esportazioni di oltre il 5%: in Germania, maggior importatore di Grana Padano, il volume di ricavi è cresciuto dell’8,2%, in Russia addirittura del 31,5% e in Canada del 22 per cento.

    Che l’export, in particolare verso Paesi emergenti come Russia, Cina, India e latino americani, sarà sempre più il driver decisivo per cavalcare saldamente il mercato, è ormai un dato acquisito tra gli operatori del settore. Esportare è diventata peraltro per le imprese del comparto una strada obbligata, con cui fronteggiare la perdurante stagnazione del mercato interno; anche per questo motivo, secondo Filippo Ferrua, Presidente Federalimentare, sarebbe utile incentivare l’export con azioni specifiche come «la piena deducibilità dei costi sostenuti per le attività di promozione e commercializzazione di prodotti italiani all’estero: questa misura potrebbe costituire un concreto e immediato incentivo per rafforzare la spinta all’internazionalizzazione». Una spinta che già nel 2010 aveva permesso alle imprese del comparto di recuperare quasi completamente i livelli pre-crisi, con un incremento del 6% rispetto al 2008. Un risultato straordinario, questo, se si considera che nel complesso delle esportazioni manifatturiere si osservava un gap sul 2008 dell’8,5%.

    È interessante notare come, alla luce di un’analisi condotta negli scorsi mesi dall’Istat su un panel di imprese esportatrici ampiamente rappresentativo delle vendite all’estero realizzate dalle imprese industriali italiane, sono soprattutto le medie imprese (50-249 addetti) ad evidenziare la miglior performance delle vendite all’estero: +13,1% nel corso del secondo trimestre 2011. L’indagine condotta dal Monitor dei Distretti di Intesa San Paolo sul primo semestre ha invece messo in luce come i tassi di crescita maggiori e i contributi più significativi sul terreno delle esportazioni sono giunti dal comparto dei vini (+11,7% sul primo semestre del 2010), dall’agricoltura (+10,8%) e dall’industria alimentare (+6,1%). In particolare, ad imprimere la direzione fortemente positiva alle filiere sono state le imprese dei distretti dei vini di Langhe, Roero e Monferrato (+18,7%), dei vini del veronese (+8,4%), del Chianti (+6,2%), del prosecco di Valdobbiadene (+26,1%), dei rossi e delle bollicine di Trento (+16,5%). In Trentino il mondo delle bollicine esprime ben 90 etichette, commercializzate da circa 40 aziende che dal 2008 sono riunite sotto un unico marchio collettivo: Trentodoc. Va detto che a Trento da oltre un secolo, sinonimo di “bollicine” sono le Cantine Ferrari: il maggior produttore italiano di spumante, che nel 2010 ha realizzato 54 milioni di ricavi (+10% sul 2009). L’azienda è da ben tre generazioni nelle mani della stessa famiglia, che nel tempo ha però diversificato la propria azione imprenditoriale, affiancando al business dei vini, una serie di partecipazioni che spaziano dalle tecnologie, alle energie rinnovabili, alla ristorazione, passando per la nautica ed arrivando agli investimenti in campo finanziario.

    Sempre rispetto ai distretti agroalimentari, va detto che le esportazioni verso i mercati emergenti stanno confermando una crescita più rapida rispetto ai mercati maturi, che tuttavia costituiscono ancora il cuore delle esportazioni. L’analisi per filiera rileva come l’elevata concentrazione dei flussi commerciali nei paesi europei (Ue15) sia una caratteristica trasversale ai diversi comparti, più accentuata per le imprese che esportano su mercati con maggiori restrizioni normative e con merci maggiormente soggette deterioramento e barriere informali (doganali e non). Per quanto la Ue15 e il Nord America continuino ad assorbire la parte più significativa dell’export dei distretti agro-alimentari, è bene evidenziare la rilevanza (in termini di livelli di export raggiunti e tassi di variazione registrati) di altre aree geo-economiche, quali l’Europa centro orientale, l’Asia centro-orientale.

    Nell’area dell’Europa centro-orientale giocano un ruolo importante il mercato russo, polacco e della Repubblica Ceca. La buona dinamica sui mercati maturi e l’avanzamento sui mercati emergenti hanno consentito ai distretti che operano nella filiera agro-alimentare un recupero totale dei livelli di export pre-crisi. Il confronto con i livelli pre-crisi per i distretti alimentari evidenzia come nel primo semestre, su 41 distretti monitorati, un buon numero (30) abbia registrato un differenziale positivo rispetto ai livelli di export raggiunti nel primo semestre del 2008. Il confronto risulta sfavorevole per molti dei distretti operanti nel comparto agricolo (ortofrutta romagnola e del foggiano, le mele del Trentino, l’olivicoltura barese e il distretto florovivaistico di Lucca e Pistoia), per due distretti della pasta (il distretto della pasta napoletana e quelli di Fara san Martino) e per il polo delle Conserve di Nocera, per il quale ancora non si arresta il trend negativo avviato nel 2010, determinato in larga parte dalla dinamica sfavorevole dei prezzi.

    Il settore alimentare, anche nel nostro Paese, sta divenendo una nuova frontiera della ricerca e della innovazione. Secondo i dati raccolti in questi anni dall’Istat, l’innovazione interessa poco più della metà delle imprese del comparto e le innovazioni sono caratterizzate da un buon grado di complementarietà e interdipendenza: nel triennio 2006-2008, oltre il 40% delle aziende di settore ha associato l’innovazione nel design (o packaging) dei prodotti ad almeno un’innovazione tecnologica e circa un quarto ha svolto attività combinate di innovazione tecnologica (nuovi prodotti integrati con nuovi processi di produzione) e innovazione nel design. Nello stesso periodo, al pari degli altri comparti della manifattura, è emersa anche nelle imprese alimentari una chiara tendenza a innovare contemporaneamente i prodotti e i processi di produzione: oltre la metà delle imprese innovatrici ha scelto l’innovazione congiunta di prodotto-processo come modalità prevalente.

    Come ha spiegato ad un recente convegno Roberto Monducci, direttore del Dipartimento per i conti nazionali e le statistiche economiche dell’Istat «tuttavia, le strategie innovative dell’industria alimentare si distinguono da quelle del resto delle imprese manifatturiere per il ruolo determinante svolto dagli investimenti in beni strumentali, nel design e nel packaging dei prodotti. In effetti il settore alimentare si segnala anzitutto per una maggiore vocazione alla sola innovazione di processo: il 36,1% delle imprese innovatrici, pur non dedicandosi allo sviluppo di nuovi prodotti, ha scelto di adottare sistemi di produzione tecnologicamente più avanzati, macchinari ad elevato contenuto innovativo, tecnologie che garantiscono una maggiore produttività e migliori prestazioni in termini di rapidità, precisione e flessibilità (la percentuale è del 25,7% nell’intero comparto manifatturiero). Inoltre, le imprese alimentari presentano, come si è detto, una maggiore propensione agli investimenti nel design e nel packaging dei prodotti: il 61,1% di esse ha scelto come strategia di diversificazione e miglioramento dell’offerta produttiva lo sviluppo di innovazioni nel design e l’adozione di nuove soluzioni nel campo del confezionamento e imballaggio (percentuale che scende al 43,6% con riferimento all’intero comparto manifatturiero)».

    Ciò con evidenti riflessi positivi sule performance aziendali, in termini di andamento dell’occupazione e dell’export. Secondo una analisi condotta dall’Istat “gli indicatori desumibili da una base di dati complessa, costruita integrando a livello di impresa i dati sull’innovazione relativi al triennio 2006-2008 con quelli sulle esportazioni realizzate nel 2010 e 2011, conferma il ruolo decisivo dell’innovazione nel determinare una migliore performance dell’export nelle imprese alimentari: infatti tra il primo semestre del 2010 ed i primi sei mesi del 2011 la variazione mediana delle vendite complessivamente realizzate all’estero delle imprese innovatrici del settore alimentare è stata pari a +18% contro il +6% delle non innovatrici”.

    Quello dell’industria alimentare italiana è insomma un settore antico sulla frontiera della modernità, che dovrà sempre più fare i conti con un mercato interno fiacco – Federalimentare ha valutato che nel solo 2012 la manovra Monti eroderà 4 miliardi di vendite alimentari – con mercati esteri appetibili ma “difficili” da raggiungere e da aggredire e naturalmente con una concorrenza sempre più agguerrita. Il tutto condito nella sostanziale ed atavica incapacità istituzionale di fare delle numerosissime eccellenze agraolimentari italiane uno straordinario volano di promozione dei territori e più complessivamente del sistema Italia.

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